Il riutilizzo ha bisogno di pace
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Il riutilizzo ha bisogno di pace

Giovedì 09 Giugno 2022

Alessandro Giuliani

Nelle guerre, al di là dei motivi geopolitici e delle ragioni delle parti in campo, a soffrire sono sempre le persone umili e, non ultimo, l’ambiente. Il riutilizzo, che è in cima alla gerarchia dei rifiuti perché è la forma di recupero che garantisce il minore impatto ambientale; ciononostante, è importante essere consapevoli che anche il riutilizzo, così come gli altri modi di recupero, funziona in base al trasporto (su gomma e su nave) e all’import-export. L’idea che si possa fare riutilizzo a grande scala senza questi due elementi è un mito romantico, e perché il pianeta si salvi è ovvio che il riutilizzo debba operare alla massima scala possibile.

ucraina

Anche quando il riutilizzo funziona a livello locale il trasporto è inevitabile e il suo costo viene aggregato al prezzo. Perché i beni usati arrivino dagli appartamenti delle persone ai negozi o ai mercati delle pulci c’è assoluto bisogno di automobili e furgoni: mi risulta un poco difficile immaginare, al giorno d’oggi, che la gente cammini per chilometri con i mobili usati in spalla o facendoseli trasportare dai cavalli. E se il trasporto è indispensabile a livello locale, lo è, ovviamente, ancor di più a livello internazionale. I sistemi maturi, come quello degli abiti usati, raggiungono grandi volumi di riutilizzo solo perché riescono a spostare grandi quantità di merci laddove esiste la domanda, e quest’ultima, in parte considerevole, si trova in altri paesi. Di ciò che viene donato alle parrocchie o conferito nei contenitori gialli solo il 10% rimane in Italia, tutto il resto viene spedito in Africa o Europa orientale.




L’innalzamento esagerato del prezzo del combustibile rischia di rompere i punti di equilibrio economici e mandare in stallo sia l’economia dell’usato locale che quella internazionale, perché i prezzi dell’usato, a differenza di quelli di altri beni hanno tetti ben precisi: gli oggetti usati, a qualità uguale o inferiore, non possono ovviamente superare il prezzo degli oggetti nuovi, e inoltre devono devono essere concorrenziali nel rapporto qualità/prezzo rispetto ai beni low cost di importazione che vengono dall’Asia (vestiti, casalinghi, ecc..) o dall’Europa orientale (mobili); rispetto a queste offerte low cost, che corrispondono a qualità scadenti, l’usato spesso riesce a vincere per la maggiore qualità, ma se il suo prezzo sale troppo a causa del costo del combustibile rischia comunque di andare fuori mercato e perdere la competizione con il nuovo low cost.




Il conflitto in corso non rischia solamente di mandare in tilt il sistema dei trasporti, ma anche di acuire la tendenza dei paesi importatori a impedire l’accesso ai beni usati. Nel 2014, a causa delle sanzioni derivate dall’annessione della Crimea, le esportazioni di vestiti usati dall’Italia alla Russia sono state ufficialmente proibite, e la Russia era il primo importatore mondiale di abiti usati! Dopodiché il primato mondiale dell’importazione è passato all’Ucraina, ma per ovvie ragioni: gli abiti usati lì inviati venivano triangolati alla Russia. Ora quel canale rischia di chiudere del tutto, e proprio adesso che la raccolta differenziata degli abiti usati è diventata obbligatoria e si prevede un aumento drastico delle quantità di abiti usati in circolazione. Dove andranno a finire quei vestiti? La nostra domanda nazionale di usato, allo stato attuale, di sicuro non è in grado di assorbirli. Va poi considerato che l’Europa e l’Italia sono in procinto di lanciare la preparazione per il riutilizzo anche dei mobili e di altri beni. D’altronde non esiste altro modo per far sì che l’Economia Circolare funzioni. Ma, anche in questo caso, è ovvio che i volumi a disposizione saranno maggiori della capacità di assorbimento della domanda nazionale. Come faremo senza la Russia? E come faremo se, nella logica dei blocchi, anche altri paesi chiuderanno le frontiere a questo tipo di importazioni? L’usato è ormai da molti decenni oggetto di contesa geopolitica; i paesi emergenti temono che danneggi le loro economie, il che è parzialmente vero ma non del tutto. Il rischio è che le posizioni di certi governi rispetto alla possibilità di importare l’usato nei loro paesi, anziché essere mediate per il beneficio di tutti, si estremizzino a scapito dell’economia circolare. In una prospettiva di lungo termine gli scenari potrebbero riequilibrarsi: potrebbe aumentare ulteriormente la domanda di usato a livello comunitario e parte della domanda dei paesi emergenti potrebbe essere soddisfatta da merci usate generate localmente. Ma anche in questa prospettiva (tutta da dimostrare) avere la possibilità di un intercambio internazionale moltiplicherebbe le chance di arrivare al massimo riutilizzo. Occorre fare molta attenzione a non confondere il concetto di economia circolare con il concetto di autarchia che, come gli italiani sanno per esperienza, è caratteristica dei paesi belligeranti. L’economia circolare, invece, è sinonimo di collaborazione tra i popoli, perché ha l’obiettivo di salvare un pianeta unico, che è la casa di tutti. Se gli inquilini litigano tra di loro è impossibile garantire la manutenzione del condominio. Il riutilizzo ha bisogno di pace. L’economia circolare, in generale, ha bisogno di pace.

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