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Direttiva due diligence, SAFE intervista Gesualdi

Martedì 13 Agosto 2024

Articolo apparso a luglio su Oltreilgreen24, newsletter di approfondimento realizzata dal Gruppo Safe in collaborazione con il Sole24ore. Si ringrazia il Gruppo Safe per la gentile concessione.

La nuova direttiva europea sulla Due Diligence (2024/1760) è entrata in vigore lo scorso 5 luglio, e deve essere recepita dagli Stati Membri entro il 26 luglio del 2026. La Direttiva, spesso definita con l’acronimo Csdd ( Corporate sustainability due diligence directive ), introduce un cambiamento paradigmatico in merito alla responsabilità delle grandi imprese, che sono chiamate a garantire il rispetto dei diritti umani e dell’ambiente in tutte le loro filiere, includendo le attività svolte da partner e fornitori. Tra gli ideatori e “padri nobili” di questo concetto esteso di responsabilità delle imprese c’è Francesco Gesualdi, noto anche come “Francuccio”, allievo di Don Milani a Barbiana negli anni ’50, autore di numerosi studi e pubblicazioni sull’argomento e fautore, dagli anni ’80 a oggi, di numerose mobilitazioni e iniziative contro lo sfruttamento del sud del mondo. SAFE gli ha chiesto di esprimere un’opinione sulla nuova direttiva.

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D. E’ entrata in vigore una direttiva europea che responsabilizza le grandi imprese in merito a diritti umani e impatti ambientali delle loro filiere internazionali. Quali sono le tue valutazioni al rispetto? Cosa migliorerà e cosa rimarrà uguale?

R. Sul piano del principio cambia tantissimo. In particolare ribalta la posizione sempre tenuta dalle imprese committenti di non avere responsabilità rispetto a ciò che succede all’interno delle imprese terze, collocate lungo la propria fileria produttiva. In passato, le imprese committenti avevano usato questa interpretazione giuridica per rifiutarsi di pagare i danni ai lavoratori che avevano subito danni per incidenti avvenuti all’interno delle imprese terze che lavoravano su contratto per loro. Ad esempio ci volle una campagna di boicottaggio per indurre Chicco Artsana a costituire un fondo che indennizzasse le decine di vittime che avevano perso la vita o erano rimaste ustionate durante l’incendio avvenuto alla Zhili, in Cina, nel 1993. In base alla nuova direttiva, oggi le imprese committenti sono costrette a prevenire, mitigare e porre rimedio alle violazioni che avvengono lungo la loro filiera produttiva. Un altro aspetto importante sul piano del principio è che la direttiva dà riconoscimento ufficiale al salario vivibile. Afferma, cioè, che il salario da corrispondere deve essere sufficiente a garantire una vita dignitosa a chi lavora e alla sua famiglia. Fino ad ora le imprese potevano fingersi etiche impegnandosi a garantire il salario minimo previsto dalle varie legislazioni nazionali, quando era risaputo che i salari minimi legali coprivano percentuali infime dei bisogni dei lavoratori e delle loro famiglie. Ora questa finzione non sarà più possibile, anche se le imprese faranno tutto il possibile per porre il salario vivibile al livello più basso possibile dal momento che non esiste un criterio universalmente condiviso di salario vivibile. Del resto il motivo per cui le imprese scelgono la delocalizzazione produttiva è l’abbassamento dei costi, primo fra tutti quello del lavoro. Sul piano concreto, dunque, rimane tutto da vedere quali effetti potrà avere la normativa adottata dall’Unione Europea. In particolare tre sono gli elementi di fragilità. Il primo è che la direttiva UE al momento è solo un insieme di linee guida che gli Stati Membri dovranno seguire quando recepiranno la direttiva entro il 2026. Il secondo elemento è che la due diligence si applica solo ai gruppi che hanno più di mille dipendenti e un fatturato annuo di 450 milioni di euro. In pratica esclude tutte le piccole e medie imprese, che però sono inserite anch’esse nella strategia della delocalizzazione produttiva. Il terzo elemento di incertezza risiede nella volontà che i singoli stati avranno di vigilare seriamente sull’applicazione dell’obbligo di due diligence imposto alle imprese. Senza seri meccanismi di controllo, la due diligence rischia di tradursi in una farsa, l’applicazione del detto gattopardesco “cambiamo tutto affinché niente cambi”, perché non si può pretendere che le volpi vigilino volontariamente sull’incolumità delle galline.




D. Già trentacinque anni fa, nel tuo libro “Lettera ad un Consumatore del Nord”, facevi appello all’azione dei consumatori per contrastare le violazioni dei diritti umani, lo sfruttamento e i disastri ambientali, e hai dedicato i decenni successivi, mediante la pubblicazione di guide e rapporti, a mettere in luce il funzionamento delle filiere internazionali dei grandi brand. Pensi che questo lavoro abbia avuto effetto? Cosa rimane da fare?

R. Senza la pressione dei consumatori, dei sindacati e più in generale della società civile, non saremmo arrivati a questo risultato per quanto imperfetto. Le imprese non sono né buone né cattive, più semplicemente rispondono a un unico imperativo: fare più soldi possibile. Per cui modificano il proprio comportamento in base a quello che garantisce il maggior ritorno economico. In questa prospettiva il livello delle vendite è determinante: se le imprese capiscono che certe politiche, per quanto vantaggiose, hanno l’effetto di allontanare i consumatori, si affrettano a cambiarle pur di riportare di nuovo i consumatori a sé. E’ quello che si chiama il potere del portafoglio. Il consumo critico è il voto praticato tramite il portafoglio, scelte di consumo effettuate in base a criteri sociali e ambientali per indurre le imprese su sentieri più rispettosi e sostenibili. Ma contemporaneamente bisogna agire sui centri politici e istituzionali per ottenere nuove leggi perché solo la legge ha la forza di farsi rispettare da tutti. La direttiva emanata a livello europeo sulla due diligence è un buon risultato, ma bisognerà insistere affinché venga allargata la platea delle imprese tenute a rispettarla e soprattutto bisognerà vigilare affinché i governi istituiscano gli organismi di controllo e li facciano funzionare.




D. L’Europa, con la sua forza economico-produttiva e il suo peso nel mercato, può aspirare ad avere un ruolo guida positivo nell’economia globale, stimolando un innalzamento generalizzato degli standard sociali ed ambientali delle imprese?

R. Bisogna riconoscere che la legge sulla due diligence assunta nel 2017 dal Parlamento francese ha fatto da pungolo all’Unione Europea, la dimostrazione che i buoni comportamenti sono fondamentali per aprire nuovi corsi storici. L’Unione Europea è un mercato importante e se condiziona l’ingresso dei prodotti esteri al rispetto di alti standard sociali e ambientali può avere un peso di consumo critico collettivo estremamente importante nel supermercato mondiale. Ma deve avere un comportamento coerente e prima di tutto deve mettere ordine in casa propria. Il fatto, ad esempio, che in Italia abbiamo più di due milioni di lavoratori poveri, la pone in una posizione di debolezza per richiedere agli stati extra-UE il pagamento di un salario vivibile. E forse in Grecia e negli stati dell’Europa dell’est va ancora peggio. Per cui, oltre a imporre standard più elevati sui prodotti provenienti dai paesi extra-UE, l’Unione Europea dovrebbe lavorare anche sulle politiche interne per migliorare le condizioni di lavoro e salariali intracomunitarie. Ad esempio la direttiva sul salario minimo emanata nell’ottobre 2022 è troppo timida: poteva essere l’occasione per definire il concetto di salario vivibile. Allo stesso modo l’UE dovrebbe avere comportamenti coerenti nelle grandi istituzioni internazionali, come il WTO, per invertire la logica degli accordi internazionali. Allo stesso modo dovrebbe evitare di stipulare accordi di libero scambio regionale che introducono eccezioni all’incontrario sia in ambito sociale che ambientale. L’umanità si trova nella tormenta di gravi dissesti sociali e ambientali dalla cui politica dipenderà l’esistenza di miliardi di persone. Oltre a tecniche specifiche, come l’economia circolare o la transizione energetica, la soluzione di tali problematiche richiede la revisione profonda del modo di funzionare del sistema. Il vecchio paradigma impostato sul produrre e consumare sempre di più non funziona più. La sfida che abbiamo davanti è come garantire lavoro, casa, salute, cultura a tutti pur producendo di meno. Una sfida che può essere vinta purchè smettiamo di enfatizzare l’arricchimento individuale e ci concentriamo sul bene comune.

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