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Servitizzazione e potere: parla l'economista Pannone

Martedì 24 Maggio 2022

Redazione Leotron

I think thank delle grandi corporation lo presentano ormai come uno scenario certo: i prodotti di consumo non saranno più proprietà di chi li usa ma saranno 'affittati' in cambio di pagamenti misurati in funzione del tempo di detenzione (ad esempio un pagamento al mese) o in base all’effettivo utilizzo. Questa visione sembra aver contaminato anche gli ambienti governativi, a partire dal Ministero della Transizione Ecologica che al capitolo 11 del Programma Nazionale Gestione Rifiuti afferma, senza particolari argomenti a sostegno, che il concetto di 'product as a service' (PaaS) è indispensabile per raggiungere gli obiettivi di riduzione, riutilizzo e recupero dei rifiuti. A rendere possibile questa svolta, secondo chi la promuove, saranno le nuove prospettive tecnologiche offerte dall’Internet delle Cose, dal Cloud e dal Big Data. Perché la servitizzazione si affermi saranno centrali i sistemi di monitoraggio OEE (Overall Equipement Effectiveness), in grado di fornire ai produttori informazioni costanti e in tempo reale sullo stato del bene, al fine di calcolare costi di manutenzione, prospettive di ricavo, e altre informazioni utili a pianificare il servizio in forme efficienti e redditive. Su questi argomenti la redazione di Leotron ha chiesto un’opinione all’economista Andrea Pannone, autore di pubblicazioni nazionali e internazionali di argomento macroeconomico ed esperto nell’analisi dei processi di innovazione tecnologica.

Intervista-andrea-pannone-servitizzazione

Pannone, che idea si è fatto dei radicali scenari di cambiamento annunciati dai think thank delle corporation?

Penso siano viziati da un ottimismo aprioristico. In occidente esiste una visione meccanicista dei processi di innovazione, purtroppo ancora dominante, che ereditiamo dagli anni ’50 del secolo scorso, quando Solow teorizzò il suo modello di crescita economica. Si tratta di una visione neoclassica del progresso tecnico che, in sostanza, concepisce la tecnologia come se fosse un dono elargito ‘da Dio agli uomini e agli ingegneri’. Una tecnologia dotata di una propria logica, che si sviluppa come un dispiegamento della coscienza in modi che noi, i nostri imprenditori o i nostri politici, non siamo in grado di controllare. La struttura economico-produttiva non può dunque che adattarsi, presto o tardi, alla ‘novità’ di cui solo i ‘tecnici’ conoscono gli arcani, e l’unico spazio che resta allo studioso non tecnico è solo quello di misurare gli effetti quantitativi e la velocità della sua diffusione.




Una sorta di determinismo storico?  

Sì. Ed è tanto marcato che il cosiddetto digital divide, o divario digitale, è diventato un tema mediatico e politico di primo piano. La presunta arretratezza di cittadini, aziende e istituzioni rispetto all’utilizzo delle tecnologie ICT è oggetto di allarmismo. L’anziano che non sa usare internet si sente in colpa, e le aziende che non si adeguano a certe proposte vengono giudicate immeritevoli di sopravvivere. Ma al di là dello specifico fondamento che possa avere il tema dell’arretratezza infrastrutturale e/o culturale in alcune realtà geografiche, reputo che lo scopo maggiore di questa cornice retorica sia quello di accelerare la diffusione di alcune tecnologie studiate per il consumo di massa. Le difficoltà o impossibilità d’uso di queste tecnologie, secondo tale retorica, può essere addebitata non a loro limiti inerenti o alla loro incompatibilità socioculturale, ma solo a presunte incapacità e ignoranza degli utenti, oppure allo stanziamento di scarsi fondi pubblici per una formazione disegnata sulle esigenze delle imprese. All’interno di questa prospettiva, ‘schiacciata’ sugli impatti finali dell’innovazione, si finisce per formulare, di volta in volta, valutazioni ottimistiche o apocalittiche sugli sviluppi futuri; trascurando il fatto, ben noto invece agli studiosi di economia delle innovazioni, che la tecnologia è in realtà il risultato del processo di innovazione e non una sua condizione preliminare.  

E questo cosa implica?  

Implica che la visione di questi processi è completamente ribaltata. La tecnologia non è il driver impersonale di un cambiamento inevitabile ed escatologico, non è una forza divina. E’ il semplice risultato delle strategie dei decision makers, le quali hanno esiti fortemente incerti che non sono necessariamente ‘buoni’ (o ‘cattivi’) per tutti. Il risultato finale non può essere dunque mai scontato a priori ma è condizionato, prima di tutto, dalle motivazioni economiche e sociali e dalla ‘forza’ che i vari attori sono in grado di esprimere. In altri termini, la considerazione delle relazioni di potere tra soggetti economici, e il contesto (sociale, economico e geografico) in cui esse sono collocate, rappresentano elementi cruciali per capire quale sarà effettivamente il punto di arrivo del processo; come anche se esso sarà conforme solo agli interessi di pochi o praticabile e sostenibile per il sistema nel suo complesso. La stessa conformità potrebbe poi non essere definitivamente stabile per effetto della non immutabilità delle stesse dinamiche di potere tra i gruppi. In questo contesto lo Stato può essere, non solo come quasi sempre avviene, il principale promotore dei grandi processi di innovazione nelle economie avanzate (telecomunicazioni, nanotecnologie, energie alternative, ecc.) - in quanto potenzialmente in grado di assumersi, a differenza degli investitori privati, la maggior parte dell’onere finanziario di progetti caratterizzati da fortissima incertezza – ma il soggetto che orienta la direzione stessa del processo e che ne impedisce, almeno in parte, la sua subordinazione agli interessi più forti.  

Intervista-andrea-pannone-servitizzazione

Considera quindi che la servitizzazione dei beni di consumo, più che un processo inevitabile, sia il progetto di un’élite?   

Rifkin, economista molto di moda, ha profetizzato l’avvento della servitizzazione nel suo libro 'L’Era dell’Accesso'. Ma le sue non sono profezie. E’ un assiduo frequentatore delle élite occidentali della politica e dell’industria, ed è molto bravo a captare certi ragionamenti e strutturarli in libri e teorie. Ma al momento di visualizzare certi scenari, più che accettarli pronamente e come se fossero inevitabili, bisognerebbe analizzarne lucidamente i possibili effetti sul corpo economico e sociale, cercando di capire, innanzitutto, quali possano essere gli impatti per la collettività. Le disruption ricardiane e shumpeteriane oggi sono più pericolose che in passato, perché i cambiamenti avvengono in modo più rapido e l’abolizione degli equilibri consolidati corrisponde sempre meno alla ri-creazione di equilibri più stabili né, tanto meno, più equi. Se penso alla servitizzazione dei beni di consumo, io vedo personalmente soprattutto un’accentuazione delle asimmetrie di potere. Dagli anni ’80 abbiamo osservato un permanente processo di spoliazione della proprietà collettiva del cittadino mediante le privatizzazioni dei servizi pubblici. Ora il processo di spoliazione intende spingersi più avanti, arrivando a deprivare il cittadino addirittura del titolo di proprietà dei suoi beni di consumo, aumentando la preoccupazione delle famiglie, già molto colpite in questi ultimi anni dalla disoccupazione e dalla precarietà lavorativa. E tutto questo in correlazione con oggetti in grado di fornire alle case produttrici dei feeback costanti sul comportamento di chi li utilizza. Non sono in grado di dire se queste possibili riforme di ‘economia circolare’ faranno bene all’ambiente, ma mi sembra evidente la prospettiva in termini di accentramento di potere e potenziale di manipolazione delle masse. Perfettamente complementare, in questa prospettiva, è l’enorme tema della ‘finanziarizzazione’ dell’economia ormai in grado di orientare anche le scelte in materia ambientale in modo molto distante dagli interessi collettivi. L’azione della finanza speculativa mondiale, ad esempio ha tutto l’interesse a fare in modo che gli investimenti di tipo ‘green’, sia pubblici che privati, siano finanziati attraverso lo sviluppo del mercato delle obbligazioni ecologiste (i cosiddetti green bond) ad alto rendimento, come anche attraverso altri strumenti quali le cartolarizzazioni verdi e i mercati dei prestiti verdi. Mercati questi che la stessa finanza speculativa può manipolare a piacimento e all’occorrenza, fino ad accrescere i rischi di insolvenza sistemica e a compromettere la fattibilità stessa delle politiche di sostenibilità.

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