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Disaccoppiamento tra PIL e rifiuti.

Qual è il ruolo del riutilizzo?

Articolo apparso a maggio 2025 su Oltreilgreen24, newsletter di approfondimento realizzata da Safe-Hub delle Economie Circolari in collaborazione con il Sole24ore. Si ringrazia Safe-Hub delle Economie Circolari per la gentile concessione.

Crescere o non crescere? Da oltre due decenni il settore ambiente si interroga su come conciliare prosperità economica e protezione dell’ecosistema. Per misurare lo stato di salute di una nazione è sufficiente monitorare la crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL)? Oppure dovremmo introdurre nuove metriche, come ad esempio l’indice di Felicità Interna Lorda (FIL), promosso dall’economista francese Serge Latouche e già adottato pioneristicamente dal Bhutan? Il FIL include un set di indicatori, tra i quali troviamo preservazione dell’ambiente e della cultura locale, salute dei cittadini, buon governo, livello di istruzione, sviluppo economico responsabile e durevole e qualità dei rapporti sociali. Latouche, iniziatore del movimento per la decrescita felice, ammette che non esistono modelli economici in grado sostenere tendenze recessive, ma è convinto che sostituendo il PIL con il FIL si innescherebbe un processo di trasformazione, anche culturale, in grado di invertire la corsa verso il disastro ambientale. L’Unione Europea, spinta da considerazioni di concretezza, punta piuttosto ad obiettivi di disaccoppiamento (decoupling) tra la crescita economica (misurata con il PIL) e gli impatti ambientali procurati da estrazione di risorse, processi produttivi e generazione di rifiuti. La sfida del disaccoppiamento tra crescita del PIL e generazione dei rifiuti, in particolare, è reputata dirimente, perché misurando il rapporto tra rifiuti ed economia possiamo valutare indirettamente anche modi di produzione e abitudini di consumo.

disaccoppiamento-rifiuti

PIL e rifiuti in Italia

Nel 2013, ai sensi dell’articolo 29 della Direttiva europea sui rifiuti (98/2008/CE), il Ministero dell’Ambiente italiano ha adottato un Programma Nazionale di Prevenzione dei Rifiuti che fissa i seguenti obiettivi di prevenzione al 2020 rispetto ai valori registrati nel 2010:

  • riduzione del 5% della produzione di rifiuti urbani per unità di Pil;
  • riduzione del 10% della produzione di rifiuti speciali pericolosi per unità di Pil;
  • riduzione del 5% della produzione di rifiuti speciali non pericolosi per unità di Pil.

A che punto siamo?

Secondo ISPRA la produzione di Rifiuti Urbani ha raggiunto le 29,3 milioni di tonnellate nel 2023. Rispetto all’anno precedente la produzione è aumentata del 2,3% al nord, è rimasta stabile al Centro ed è diminuita dell’1,2% al Sud. Ne risulta un dato nazionale del +0,7% (+218.000 tonnellate).

“Nel complesso” riferiscono gli analisti dell’Istituto ministeriale, “l’andamento della produzione dei rifiuti osservato negli anni è altalenante”, e ciò “può essere correlato a diversi fattori, anche combinati tra loro, tra cui l’introduzione di nuove disposizioni normative che hanno, ad esempio, modificato la definizione o le modalità di contabilizzazione della raccolta e della gestione del rifiuto urbano, o motivazioni sanitarie o socio-economiche, quali la pandemia del 2020 e la crisi internazionale del 2022, che hanno influito sui consumi e, conseguentemente, sulla produzione dei rifiuti”.

Vale la pena evidenziare che tra i fattori in grado di incidere sulla produzione dei rifiuti urbani gli analisti di ISPRA non menzionano, neanche in modo marginale, le politiche di prevenzione dei rifiuti. Queste ultime di fatti sono molto poco sviluppate, nonostante, almeno a livello di principio, siano in cima alla gerarchia dei rifiuti imposta dalla norma europea e nazionale.

L’importanza di EPR, ecodesign e riutilizzo

Secondo Giuliano Maddalena, Direttore di SAFE-Hub delle Economie Circolari, a imprimere un trend di riduzione dei Rifiuti Urbani potrebbero essere soprattutto le politiche di prevenzione collegate a Ecodesign e Responsabilità Estesa del Produttore (EPR).

“L’Ecodesign” spiega Maddalena “è oggetto di un regolamento europeo che, tra i nuovi requisiti del prodotto, indica anche durevolezza, riutilizzabilità e riparabilità, ossia qualità che rendono tecnicamente possibile l’allungamento del ciclo di vita dei prodotti, con conseguente riduzione dei rifiuti. A rafforzare la spinta verso questi requisiti può essere l’eco-modulazione dei contributi ambientali dovuti a sistemi collettivi della Responsabilità Estesa del Produttore; questi contributi infatti possono essere commisurati, in modo inversamente proporzionale, anche alla durevolezza, riutilizzabilità e riparabilità dei prodotti immessi sul mercato”.

“Ma la riutilizzabilità porta a concreti risultati ambientali solo in presenza di solide filiere del Riutilizzo“, specifica il manager dell’Economia Circolare. “Anche in questo ambito i sistemi EPR potrebbero essere determinanti. In Italia, secondo l’associazione di categoria Rete ONU, esistono circa 100.000 addetti del riutilizzo suddivisi in una molteplicità di anime e comparti. Nel primo rapporto sul fenomeno del riuso in Italia consegnato da Ispra alla Commissione Europea si dà conto di ben 232.000 tonnellate riutilizzate nel 2022 dal solo comparto dell’usato conto terzi. ISPRA ora sta calcolando le performance di riutilizzo degli ambulanti. Queste economie popolari sono di per sé virtuose, però occorre fare i conti con la loro dimensione spontanea e poco organizzata. Non c’è dubbio che integrandole in modo efficiente nelle logistiche della Responsabilità Estesa del Produttore, i loro risultati ambientali potrebbero essere massimizzati, ma perché ciò accada gli operatori dovrebbero dotarsi di idonei strumenti di tracciabilità, e lavorare con standard di qualità adeguati “. Di fatti, avvisa Maddalena “per i produttori sarebbe immorale interpretare il loro mandato di responsabilità in modo esclusivamente finanziario, destinando denaro in modo discriminato agli Operatori del Riutilizzo senza interessarsi alle loro condizioni di lavoro e agli impatti ambientali della loro attività. Al contrario, gli organismi collettivi dei produttori possono sostenere il Riutilizzo contribuendo all’organizzazione delle filiere, accompagnando per mano gli operatori a migliorare i loro standard, e promovendo sinergie a tutto campo con la gestione dei rifiuti: dai modi di intercettazione fino al corretto smaltimento dei residui delle loro attività”.

“Un serio ragionamento sul Riutilizzo deve includere anche la questione del monitoraggio e controllo delle filiere internazionali della seconda mano “, afferma il manager. “È infatti risaputo che il riutilizzo nazionale tende ad assorbire solo le frazioni di maggiore valore, mentre quelle di qualità bassa e media trovano mercato soprattutto in paesi più poveri del nostro, dove però i sistemi di gestione dei rifiuti potrebbero essere più deboli e meno controllati”.

“Infine”, suggerisce Maddalena, “andrebbero evitate artificiali dicotomie tra Riutilizzo e Preparazione per il Riutilizzo. La Preparazione per il Riutilizzo obbedisce di fatti alle classificazioni del rifiuto, ma in molti casi è la maniera più sicura e controllata di destinare beni alle filiere del riutilizzo. Sarebbe quindi ottuso disincentivarla a priori con il fine di privilegiare il Riutilizzo, solo per il fatto che il Riutilizzo è classificabile come prevenzione mentre la Preparazione per il Riutilizzo non lo è”.




Il rompicapo dei rifiuti speciali

A proposito dei Rifiuti Speciali, ossia i rifiuti che sono prodotti dalle attività economiche, il Laboratorio REF ha realizzato di recente un’analisi dei dati Eurostat relativi al decennio 2012-2022, rilevando che in Italia, a differenza di Spagna, Francia e Germania, la produzione di questo tipo di rifiuti per unità di PIL è aumentata anziché diminuire, passando da circa 45 kg a quasi 49 kg. Va però evidenziato che nel periodo 2014-2021 l’indice si era sempre attestato un poco al di sopra dei 50 kg (con un picco di 54 kg nel 2020, attribuibile al crollo del PIL generato dal lockdown sanitario), e pertanto gli ultimi registri a disposizione mostrano un decremento.

“Nell’ambito della produzione dei rifiuti speciali”, sottolinea Giuliano Maddalena, “le variabili che determinano il livello di produzione sono plurali e non sempre facili da decifrare. Va per esempio tenuto conto che, con l’aumento dei livelli di recupero dei rifiuti, aumentano anche i sovvalli degli impianti di trattamento, anche detti rifiuti secondari. Questi ultimi ormai hanno superato il 25% del totale dei rifiuti da attività economiche, e il conteggio ovviamente include i sovvalli che derivano dal trattamento dei rifiuti urbani. Occorre quindi prendere atto che più aumentano le raccolte differenziate dei rifiuti urbani, più aumentano i rifiuti speciali. Ciò vuol dire che, almeno in questo specifico segmento, l’aumento dei rifiuti speciali non è di per sé un indicatore negativo. I sovvalli, a loro volta, possono essere ridotti nella misura in cui cresce l’efficienza degli impianti”.

“C’è poi la questione dei sottoprodotti, ovvero degli scarti di produzione che non sono classificati come rifiuti perché direttamente recuperabili come materie secondarie all’interno dei processi produttivi. In Italia, rispetto ad altri paesi, si fa meno ricorso a questa soluzione classificatoria, e questo la fa apparire meno performante in termini di riduzione dei rifiuti”.

“La mancata applicazione del regime di sottoprodotto non è però necessariamente un male”, dice Maddalena, “perché è sempre meglio un rifiuto correttamente gestito che un sottoprodotto fuori controllo o impropriamente classificato”.

“Una corretta interpretazione del dato di riduzione dei rifiuti industriali non può infine prescindere da valutazioni più ampie in merito alla divisione internazionale del lavoro. L’ecosistema è uno solo, a livello planetario, quindi non è detto che generare meno rifiuti speciali nel nostro paese sia un fatto positivo se ciò è dovuto alla delocalizzazione di un impianto produttivo in un altro paese, magari extraeuropeo, dove gli standard ambientali imposti dalla legge sono minori o meno efficaci. In questi casi il minor conteggio di rifiuti in patria non dovrebbe essere un fatto di cui gloriarsi perché in realtà i rifiuti, anziché essere ridotti, vengono spostati in paesi dove il loro impatto ambientale è maggiore. Nella stessa ottica, quando si osserva che altri paesi europei producono meno rifiuti speciali per unità di PIL, occorre ricordarsi che l’Italia continua a distinguersi per la sua alta densità manifatturiera oltre che per la sua vocazione all’esportazione”.

“In ultima analisi”, conclude Maddalena, “se davvero vogliamo parlare di prevenzione, e vogliamo parlarne sul serio, la priorità assoluta è l’integrale trasparenza delle filiere: sia a monte, nelle fasi di produzione, che a valle, nelle fasi di gestione dei rifiuti. È solo partendo da una conoscenza precisa delle filiere che si può attribuire il giusto valore a un dato di riduzione del rifiuto, oltre che a misurare quanto è l’effettivo riutilizzo e quanto l’effettivo riciclaggio, al di là di quelli che sono i meri registri formali sui quali si basano la gran parte dei rapporti sulla prevenzione e la circolarità”.

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