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Rete ONU contro il monopolio comunale dei tessili

Venerdì 16 Maggio 2025

Articolo di Daniele Di Stefano apparso a maggio su Economiacircolare.com. Si ringraziano la testata e l’autore per la gentile concessione. Per leggere la pubblicazione originale fai clic qui.

La responsabilità estesa del produttore (EPR) per i prodotti tessili, prevista dalla revisione della direttiva quadro sui rifiuti, introduce importanti novità che avranno impatti su tutta la filiera. Abbiamo chiesto un parere sulle norme Ue e sulla bozza di decreto italiano predisposta dal Ministero dell’Ambiente ad Alessandro Stillo, portavoce nazione di Rete ONU, che raggruppa gli operatori italiani dell’usato.

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Partiamo dalle novità europee: vi convince la definizione del perimetro di prodotti da sottoporre a regime EPR, che ad esempio esclude tappeti e materassi?

Su questo aspetto specifico non abbiamo un punto di vista comune. Alcuni dei nostri operatori reputano che includere merceologie come tappeti e materassi possa essere un elemento di opportunità, perché dispongono di filiere attrezzate per assorbirli. Altri operatori, esclusivamente concentrati sul core business degli abiti usati, temono di doversi attrezzare forzosamente per gestire anche queste merceologie, andando ad aumentare stress operativo in una fase normativa e di mercato che è già di per sé abbastanza complicata.

Commissione, Parlamento e Consiglio hanno deciso che “i prodotti tessili usati raccolti separatamente sono considerati rifiuti al momento della raccolta, a meno che non siano consegnati direttamente dagli utenti finali e valutati professionalmente come idonei al riutilizzo nel punto di raccolta”. Condividete la scelta?  

È una scelta in linea con la nostra normativa nazionale. L’articolo 14 della legge 166 del 2016 dice la stessa cosa. È importante che questi vincoli esistano, perché non si può addossare al cittadino la responsabilità di distinguere alla perfezione ciò che è riutilizzabile da ciò che non lo è; per compiere la scelta finale occorrono competenza e conoscenza del mercato, ed è importante che ciò avvenga nel contesto controllato della gestione dei rifiuti.

Il termine rifiuto è semanticamente brutto, ma in quanto status normativo, in certi ambiti, consente di massimizzare il riutilizzo e di gestire correttamente ciò che non è riutilizzabile. La prevenzione deve riguardare le filiere della seconda mano, senza essere trasferita artificiosamente agli ambiti che afferiscono in modo naturale alla gestione del rifiuto.

Sia nella normativa europea che in quella nazionale è tutto molto chiaro: quando si fa una selezione dei rifiuti tessili per il riutilizzo non si parla di “prevenzione”, ai sensi di legge, ma di “preparazione per il riutilizzo”. La preparazione per il riutilizzo è un’operazione di recupero dei rifiuti. Invece per “prevenzione dei rifiuti” si intende una serie di azioni tra cui il riutilizzo, ma non legato alla filiera dei rifiuti: sono vere filiere di prevenzione, ossia vere filiere di riutilizzo, quelle che sono diverse dalle filiere dei rifiuti, e ci riferiamo ai negozi dell’usato conto terzi per esempio, agli svuotacantine e a tutte le altre forme che non sfruttano la logistica del rifiuto. Secondo noi è artificioso trasferire la prevenzione alla gestione dei rifiuti. La prevenzione, infatti, smette di essere una buona cosa quando diventa un’alternativa meno sicura e controllata, in concorrenza con filiere del rifiuto che possono offrire migliori risultati e garanzie ambientali.

Non sono previste esenzioni per le microimprese. Che ne pensate?

Nell’EPR tutti i produttori devono essere inclusi, altrimenti il sistema è zoppo. Soprattutto in un sistema come quello italiano, dove oltre il 90% delle imprese del settore tessile-moda sono micro. Bisognerebbe ragionare, piuttosto, sulla forma di includerle in maniere che siano per loro sostenibili.




La direttiva non indica obiettivi vincolanti: questo può essere un limite?

Probabilmente non è un limite in quanto a obiettivi di recupero, perché, in assenza di deformazioni politiche o di mercato, tutti gli Stati membri cercheranno di utilizzare l’EPR tessile come volano che contribuisca al raggiungimento degli obiettivi generali imposti dall’Europa. Ciò che invece ci preoccupa, è l’assenza di obiettivi specifici di riutilizzo e preparazione per il riutilizzo. Questi ultimi possono essere fissati in tavoli di concertazione nazionali, ma è importante che in questi ultimi vengano coinvolte le associazioni di categoria maggiormente rappresentative, non solo dei raccoglitori e recuperatori del rifiuto, ma anche del settore della seconda mano. È infatti assurdo che la norma parli di dare priorità al riutilizzo in linea di principio, se poi gli operatori del settore del riutilizzo non vengono coinvolti, o se vengono coinvolti in modo arbitrario solo piccoli pezzetti di questo settore, che è poi quello che accade a Bruxelles.

Come giudicate l’attenzione riservata dalla nuova direttiva alle imprese sociali?

È una questione spinosa, che mi fa venire in mente il detto latino “divide et impera”. Rete ONU include imprese della seconda mano di tutti i tipi, includendo le imprese sociali (in compagine ne abbiamo almeno 15). Il nostro sforzo, da anni, è quello di ricondurre tutte le anime del riutilizzo e della preparazione per il riutilizzo, incluse le imprese sociali, in un’unica istanza, giusta, equilibrata, armoniosa ed orientata al massimo risultato ambientale e sociale. Sull’aspetto sociale, a lato dell’importantissimo lavoro di inclusione dei soggetti svantaggiati operato dalle imprese sociali, c’è l’importante questione, spesso trascurata, dei soggetti vulnerabili che oggi operano informalmente nelle filiere. E poi ci sono quegli enti gestori di rifiuti tessili e abiti usati che, pur non essendo formalmente classificati come imprese sociali, non hanno come obiettivo il profitto ma il finanziamento di progetti di solidarietà. Nello stesso ambito delle imprese sociali, porre privilegi è controverso, perché non tutte le imprese sociali hanno la stessa forza al momento di negoziare l’usufrutto di tali privilegi, e il rischio è che molte di esse, forse la maggior parte, vengano escluse a vantaggio di quelle politicamente più efficaci. Di sicuro, se il decision maker intende favorire il sociale, dovrebbe farlo in modo ampio, imponendo misurazioni dell’effettiva performance sociale e facendo attenzione a evitare discriminazioni, parzialità e deformazioni che vadano a favorire specifiche cordate di operatori.

Nel testo approvato dal Trilogo si prevede la possibilità di ‘consorzi’ (Product Responsibility Organization) pubblici. Che ne pensate?

I monopoli sicuramente non ci favoriscono. Noi non tifiamo per il pubblico né per il privato, ma per sistemi plurali dove il potere sia distribuito, scongiurando scenari come quello attuale, dove i Comuni sfruttano il monopolio che hanno sui loro territori per strozzare i raccoglitori, e di conseguenza tutta la filiera, con insostenibili gare al massimo rialzo. Il riutilizzo secondo la norma andrebbe favorito, ma la realtà dei fatti, almeno in Italia, è che viene vessato.

Lo strumento legislativo scelto in Europa è quello della direttiva, che ogni Paese dovrà recepire: secondo voi verrà garantita una sufficiente omogeneità? 

Su questo specifico aspetto al nostro interno abbiamo punti di vista diversi. Abbiamo soci che operano internazionalmente, e sono particolarmente attenti alla questione dell’omogeneità, e altri che sono maggiormente preoccupati dalla necessità di schemi che siano ritagliati sulla nostra condizione nazionale. Di certo, bisogna smettere di svalutare l’Italia, ignorando la sua prerogativa naturale di leadership nei tavoli di concertazione europei. C’è chi continua a ripetere che l’Italia dovrebbe adeguarsi all’Europa, tralasciando il fatto che essa è protagonista e motore del processo comunitario. Protagonista perché a livello comunitario abbiamo il settore tessile-moda più forte, il settore di recupero tessile più forte e, probabilmente, anche il mercato di seconda mano più forte.




Cosa migliorereste nella direttiva?

I passaggi relativi alle imprese sociali, a nostro avviso, presentano un grande punto di criticità. Nella direttiva l’argomento sociale andrebbe rivisto in logica più includente ed equilibrata, che garantisca la giustizia di mercato per tutti gli operatori dell’usato, e in particolare le microimprese e soggetti vulnerabili, così come la piena inclusione di tutte le imprese sociali e degli attori del sociale che non ricadono sotto la specifica classificazione di impresa sociale. allo stato attuale ci sembra che l’obiettivo sia solo quello di far contente specifiche cordate che sono molto attive a Bruxelles.

A penalizzarci sono anche gli studi dell’Agenzia Ambientale Europa (EEA), che offrono ricostruzioni settoriali deformate, basate non su indagini di campo dirette ma su informazioni procedenti dagli stakeholder più accreditati, e tra questi ci sono le cordate delle imprese sociali dominanti; il risultato è una mappa che tiene poco conto della realtà.

Il testo per l’EPR predisposto dal ministero dell’Ambiente, sul quale si è da poco conclusa la consultazione pubblica, è in linea con le previsioni della direttiva?

Se non è in linea, uno dei due testi dovrà adattarsi: su questo non ci piove.

Nel decreto, secondo voi, è sufficientemente chiara la distinzione tra prodotti per il second hand e prodotti per il riciclo/smaltimento?

In generale, ci sembra che alle filiere del second-hand, seppur incluse e menzionate, non venga data la centralità che gli spetta. Non riusciamo a capire perché si insista tanto sui centri di riutilizzo che, di per sé, e al di là del lodevole contributo di sperimentazione, non rappresentano in loro stessi, oggigiorno, un fenomeno in grado di incidere su risultati ambientali ed occupazionali. Sia chiaro: noi siamo a favore dei Centri per il Riutilizzo. Ma le filiere del second-hand andrebbero messe al centro, e i centri per il riutilizzo, in subordine, indicati come possibile snodo strategico per alimentare le filiere. L’integrazione alle filiere è la via maestra perché i centri di riutilizzo e i soggetti che li gestiscono possano svilupparsi e prosperare.

Il ministero chiarisce sufficientemente come dovrà avvenire il coordinamento tra le raccolte previste e gestite dagli schemi collettivi e la raccolta da parte dei gestori del servizio urbano?

No. Ad esempio al comma 2 dell’articolo 13 sembra che un distributore retailer sia libero di dare i rifiuti tessili a chi gli pare. Come già detto, siamo a favore della rottura dei monopoli, ma ci deve essere un limite di buon senso, perché le scale di funzionamento delle raccolte locali vanno comunque preservate. Più in generale, e in un’ottica di pluralità, bisognerebbe evitare che le raccolte dei distributori continuino a ricadere sotto la gestione dei Comuni, perché altrimenti il monopolio persisterebbe.

E andrebbero evitate anche mediazioni tra Comuni e Produttori che implichino lo spacchettamento della filiera, facendo perdere ai raccoglitori la proprietà del rifiuto raccolto: di fatti, in questo modo, si interrompe il ciclo di qualità, cioè il meccanismo di mercato che fa sì che un raccoglitore sia incentivato a raccogliere il meglio possibile dato che il suo ricavo deriva non solo dal peso ma anche dalla qualità del raccolto. Il legislatore a volte ignora che una raccolta fatta con poca cura produce il deterioramento e la non riusabilità degli abiti. Più che sullo spacchettamento, bisognerebbe puntare sulla tracciabilità.

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