Pre-owned Zara: sostenibilità o greenwashing?
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Pre-owned Zara: sostenibilità o greenwashing?

Mercoledì 24 Gennaio 2024
Eleonora Truzzi

Era il lontano 2013 quando H&M fece scalpore per essere stata la prima azienda di moda a lanciare la campagna di economia circolare “Let’s close the loop” per il ritiro dei capi di abbigliamento usati. Ora pare che Zara, terza più grande casa di abbigliamento al mondo, stia seguendo le sue orme con il programma Pre-owned, una piattaforma di rivendita di abiti second hand Zara disponibile sul territorio europeo.

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Cos’è Pre-owned di Zara

Zara ha aperto, in una sezione apposita del proprio sito web, un’area dedicata alla moda pre-owned, in poche parole all’usato. L’azienda ha messo a disposizione 3 servizi diversi tutti legati, apparentemente, a una concezione di moda responsabile. È stato previsto un servizio di riparazione di abiti danneggiati presso i laboratori aziendali, la possibilità di acquistare e vendere capi di seconda mano al fine di allungare il loro ciclo di vita e il servizio di raccolta abiti che, dice l’azienda, verranno poi consegnati a organizzazioni locali.

Sulla piattaforma di rivendita, disponibile solo online, gli utenti possono quindi vendere o acquistare capi di Zara messi a disposizione da altri clienti, in un’ottica di circular fashion.

Sembra un’iniziativa volta a ridurre l’impatto ambientale dell’industria della moda, che è ormai risaputo essere altamente inquinante. Le tempistiche, tuttavia, con cui è stata aperta la Pre-owned platform lasciano spazio a un ragionevole dubbio.




Eco-fashion o greenwashing?

L’analisi del caso Zara è piuttosto interessante poiché era solo dicembre dello scorso anno quando l’azienda ha deciso di ritirare la campagna “The Jacket”, entrata nell’occhio del ciclone per aver utilizzato manichini senza arti che rievocavano le immagini diffuse sulla guerra tra Palestina e Israele. Il brand aveva bisogno di risollevare la propria immagine, quindi perché non sfruttare il trend di consumo responsabile?

Negli ultimi anni la sostenibilità nel settore moda si è espanso sempre di più, dall’utilizzo di materiali green, addirittura vegan, fino ai vestiti usati. Tuttavia, il confine tra sostenibilità e greenwhashing è estremamente labile.

La critica al greenwashing è più che giustificata, poiché si tratta di una pratica in cui un'azienda o un'organizzazione cerca di presentare un'immagine di responsabilità ambientale e sostenibilità che potrebbe essere ingannevole o esagerata.

In altre parole, il greenwashing si verifica quando un'entità pubblicizza in modo fuorviante o ingiusto le proprie pratiche o prodotti come ecologici o sostenibili al fine di migliorare la propria reputazione ambientale, attirare i consumatori sensibili alle questioni ambientali o ottenere vantaggi commerciali.

Le aziende coinvolte nel greenwashing possono utilizzare messaggi ambigui o informazioni selezionate per far sembrare che i loro prodotti o attività siano più rispettosi dell'ambiente di quanto siano in realtà.

Per evitare il greenwashing, è importante che i consumatori siano informati, facciano ricerche approfondite sulle pratiche effettive delle aziende e guardino oltre le dichiarazioni di marketing per valutare realmente l'impatto ambientale delle operazioni aziendali.

Facciamo quindi qualche ricerca.




Zara e sostenibilità possono coesistere?

Aziende di questo calibro, che hanno fondato il loro successo sul concetto di fast fashion, hanno sempre qualche difficoltà a seguire una certa etica nella moda. Prima si parlava di H&M non a caso. Staffan Lindberg, giornalista svedese, ha condotto un’interessante ricerca sui capi raccolti da H&M per essere riciclati. Apponendo un tag bluetooth è riuscito a ripercorrere la strada di dieci capi, scoprendo che invece di essere riutilizzati sono stati gettati nelle discariche in Asia e Africa. Lindberg non è nuovo in questi studi, avendo pubblicato precedentemente un report sulle emissioni delle fabbriche di H&M in Bangladesh che ne inquinavano i corsi d’acqua.

Questa situazione è particolarmente preoccupante perché i vestiti usati rappresentano una risorsa preziosa per i Paesi africani, dove possono essere riutilizzati per creare nuovi prodotti. Tuttavia, la mancanza di trasparenza e informazione sulle filiere di riuso dei vestiti sta contribuendo a creare un mercato informale e poco sostenibile.

In Africa esistono infatti anche filiere pulite che gestiscono abiti usati e che contribuiscono a creare posti di lavoro e a ridurre l'inquinamento. È importante quindi che le aziende che si occupano di riuso siano trasparenti sulle loro pratiche e che informino i consumatori sulle possibilità di riutilizzo.

Come dicevamo, il confine tra sostenibilità e greenwashing è labile.

Ma torniamo a Zara, cercando di capire se può effettivamente essere considerata un’azienda sostenibile.

Il trattamento dei dipendenti

Il primo pilastro di una moda sostenibile è il trattamento che viene riservato ai dipendenti. Possiamo leggere del recente impegno di Zara per migliorare il welfare aziendale con un accordo che prevede misure in grado di conciliare meglio vita e lavoro.

Ma non possiamo dimenticare, all’altra parte, eventi come i bigliettini negli abiti sui cui, anni fa, i lavoratori di Istanbul avevano scritto “Non sono stato pagato” per denunciare la mancanza di pagamenti della manodopera da parte dell’azienda.

Così come non si possono dimenticare le diverse critiche da parte delle autorità brasiliane verso il brand per non essere riuscito a migliorare le condizioni di lavoro locale.

E che dire ancora di una sua fabbrica in Tunisia che produce 1.200 pezzi al giorno, 150 pezzi all'ora, in cui ogni lavoratore è cronometrato e ha 38 minuti per completare una camicia? Camicia che viene poi rivenduta al triplo del suo valore.

La sostenibilità dei materiali

E per quanto riguarda l’impatto ambientale dei materiali impiegati nella produzione dei capi? Inditex, il gruppo che possiede Zara, ha annunciato nel 2019 i suoi goal sostenibili. Già entro il 2023 vuole eliminare del tutto la plastica monouso, raggiungere il 100% del cotone biologico e delle fibre cellulosiche sostenibili. Entro il 2025 vuole ottenere il 100% del lino e poliestere da fonti preferenziali e ridurre del 25% il consumo di acqua nella catena di fornitura. Entro il 2030 vuole ridurre le emissioni del 50%, utilizzare solo materie prime tessili con un minor impatto ambientale, riducendo l’impronta di carbonio del 90% rispetto al 2018.

Tuttavia, è difficile trovare delle informazioni tangibili sugli effettivi traguardi raggiunti dall’azienda in termini di riduzione dell’inquinamento o miglioramento del processo produttivo. Considerando anche che i fattori più impattanti sull’ambiente su cui lavorare sono la produzione delle fibre, la preparazione del filato e la tintura, il passaggio più inquinante di tutti. Per un’azienda che produce più di 450 milioni di capi faranno davvero la differenza i goal fissati? Un’azienda in attivo difficilmente cala la produzione, in alternativa dovrebbe rendere i propri capi più duraturi.

Senza contare che, la stessa settimana in cui il brand ha lanciato i suoi obiettivi sostenibili, è stato citato dal New York Times per aver messo in vendita un vestito di viscosa (che per essere prodotta ha già causato deforestazioni in passato) da 50 dollari che è diventato talmente virale da ottenere un proprio profilo Instagram.

La durata dei capi

I vestiti di Zara sono progettati per essere di seconda mano? Con il servizio Pre-owned si può allungare la vita dei capi, ma non è detto che il ciclo di vita sia poi così lungo per capi che non sono stati progettati per durare nei decenni, ma per seguire le tendenze della moda veloce che chiedono un’alta produzione a un basso costo.

Infatti, “fast fashion” non si riferisce solamente alla velocità nella produzione, poiché anche il ciclo di vita è veloce, destinato a seguire le mode. Un capo viene ormai indossato da una a quattro volte prima di essere dimenticato.

Alcuni esperti e attivisti hanno criticato il piano di Zara, sostenendo che non sia abbastanza per contrastare gli effetti negativi della fast fashion, che produce enormi quantità di rifiuti, inquina l’ambiente e sfrutta i lavoratori. Altri suggeriscono che dovrebbe ridurre la sua produzione, aumentare la qualità dei suoi prodotti, garantire condizioni di lavoro eque e trasparenti e incoraggiare i consumatori a un consumo consapevole.

Quel che è certo è che i consumatori non dovrebbero fermarsi all’apparenza ma sviluppare una vera consapevolezza ambientale, monitorando gli effettivi traguardi raggiunti da aziende di questo calibro senza fermarsi alle dichiarazioni di belle intenzioni.

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