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Le nuove regole del mercato degli abiti usati

Mercoledì 02 Novembre 2022

Redazionale

La Raccolta Differenziata degli abiti usati è obbligatoria dal primo gennaio 2022 e la Responsabilità Estesa del Produttore dei rifiuti tessili alle porte. Per il mercato del recupero degli abiti usati il drastico cambiamento di cui si discute da anni è già arrivato. Incipiente, di sicuro, ma del tutto concreto. Come si posizioneranno in questo nuovo scenario i player che tradizionalmente si dedicano alla raccolta, al recupero e alla commercializzazione degli abiti usati? Lo abbiamo chiesto a Valentina Rossi, portavoce di un network internazionale che si propone di gestire l’intera filiera degli abiti usati “dalla culla alla culla”.

 

Valentina, come è nata l’idea di creare Rete NICE?

E’ nata da una stringente necessità. Negli ultimi anni il mercato degli abiti usati e dei rifiuti tessili ha vissuto momenti di forte crisi. Momenti in cui i canali di esportazione si chiudevano e i prezzi crollavano, strangolando i raccoglitori. Momenti in cui, al contrario, erano i canali di recupero ad avere bisogno di materiale e i prezzi salivano alle stelle, strangolando i recuperatori. E in più c’è il problema del fast fashion, che abbatte il valore del raccolto in una fase in cui il costo di un corretto smaltimento è salito moltissimo. Di fronte a questa instabilità, purtroppo, alcuni operatori hanno scelto di entrare in deroga alla legalità pur di risparmiare e sopravvivere. Noi abbiamo fatto una scelta completamente diversa. Abbiamo deciso di unirci: raccoglitori, selezionatori e distributori. Di stringerci la mano e di non approfittarci l’uno delle debolezze dell’altro. Abbiamo deciso di affrontare i cicli di instabilità del mercato creando una rete che copre l’intera filiera, dalla raccolta alla vendita finale passando per la selezione e l’igienizzazione, garantendo a tutti i suoi membri prezzi giusti sempre e comunque. Questa formula ci consente di lavorare in piena tranquillità, con serietà e senza rischi.




Chi sono i membri di Rete NICE?

Si tratta di sette aziende: Nicoletti Servizi, Herman Textile Recycling e Celutex hanno la loro sede in Italia e, sommate tra di loro, mettono al servizio della Rete una flotta di quindici veicoli e undici impianti autorizzati allo stoccaggio e al trattamento dei rifiuti tessili. Ci sono poi le aziende Al Raouf, Fripco, Sola e Tata che gestiscono undici negozi all’ingrosso in Congo e in Mali.

La stabilità dei prezzi di filiera è l’unico vantaggio offerto dalla Rete?

No, ci sono anche altri importanti vantaggi. Avere il pieno controllo della filiera ci permette di offrire un altissimo livello di trasparenza agli enti e alle istituzioni che hanno la prerogativa di allocare i flussi di abiti usati. Dopo la strage dei lavoratori del Rana Plaza, in Bangladesh, dove si producevano abiti fast fashion di alcuni tra i brand più famosi, i consumatori più giovani pretendono di sapere per filo e per segno la storia degli abiti che acquistano e indossano. Nel settore italiano degli abiti usati, in dimensione più micro, è successo qualcosa di simile. A seguito di continui scandali giudiziari e mediatici riguardanti il settore, i cittadini che conferiscono gli abiti usati hanno cominciato a vedere con forte sospetto la raccolta stradale degli abiti usati. E così nel 2021 Utilitalia, associazione di categoria delle aziende di igiene urbana, ha pubblicato delle Linee Guida sull’affidamento dei servizi di gestione degli abiti usati che puntano moltissimo sulla trasparenza. Non basta più essere autorizzati alla raccolta e dichiarare di stare trasportando i rifiuti tessili a un impianto di trattamento autorizzato. Bisogna offrire maggiori garanzie, è stato imposto il principio che trasparenza e tracciabilità dovrebbero arrivare il più possibile fino alla fine della filiera. ANCI, l’associazione nazionale dei Comuni, ha rimarcato lo stesso principio, e a parlare di filiere selezionate sono anche gli organismi collettivi dei produttori di abbigliamento e prodotti tessili che oggi, in virtù dell’EPR diventano responsabili delle filiere di recupero. In uno scenario competitivo di questo genere ovviamente Rete NICE ha fortissimi elementi di vantaggio.
Un altro importante punto di vantaggio del nostro approccio deriva dalla possibilità di applicare un ciclo di qualità moderno, dove è il consumatore finale a orientare la catena di produzione.




Per consumatore finale si intende la persona che acquista l’abito usato alla fine della filiera?

Esattamente. Il nostro consumatore finale acquista l’abito usato da venditori ambulanti che, a loro volta, acquisiscono ballette di vestiti usati di 40 kg nei nostri punti di vendita all’ingrosso. Se una balletta non è soddisfacente gli ambulanti lo fanno immediatamente sapere al nostro personale di vendita, e il feedback arriva direttamente ai nostri impianti italiani dove avviene la selezione e dove le ballette vengono confezionate. Inoltre, periodicamente, i responsabili italiani della selezione si recano in Africa, compiono analisi merceologiche assieme ai venditori all’ingrosso e visitano i mercati dove avviene la vendita finale. L’applicazione di questo ciclo di qualità ci aiuta ad essere commercialmente più efficaci, ma i suoi effetti positivi sono anche sociali ed ambientali. Quando l’ambulante acquista una balletta che contiene materiale non idoneo al riutilizzo, si verificano due tipi di problema: uno smaltimento illecito, dato che in Africa non esistono sistemi di riciclo o smaltimento adeguati, e un danno economico concreto all’ambulante, che per garantire un sostentamento dignitoso alla propria famiglia conta spesso su margini economici abbastanza ristretti. Il punto di equilibrio economico degli ambulanti va preservato, non è giusto che a pagare le sviste di una selezione distratta sia l’anello più debole della filiera.

Perché mandare i vestiti fino in Africa?

 Perché è lì che si trova il loro mercato. E’ una questione di potere d’acquisto. Gli italiani consumano stock provenienti dalla Germania e dall’Olanda, mentre gli europei dell’est e gli africani comprano i nostri abiti usati. Del totale del raccolto nei contenitori stradali solo una quota esigua riesce a trovare uno sbocco nei canali commerciali nostrani. Il riutilizzo è l’opzione più ecologica in assoluto, ma perché venga massimizzato bisogna rivolgersi ai mercati esteri più idonei. Gli studi compiuti con metodo LCA hanno dimostrato che il saldo ambientale del riutilizzo continua a essere positivo nonostante i lunghi trasporti navali, ma solo a patto che esista un reale controllo di cosa accade a valle delle filiere. Altrimenti il rischio, come ha segnalato recentemente la Commissione Ecomafie, è che l’Africa diventi un luogo dove trasferire smaltimenti illeciti. Prevenire questo tipo di rischi non è difficile: è sufficiente far sì che il principio di responsabilità non si esaurisca nelle fasi della raccolta o della selezione.

C’è chi dice che controllare tutta la filiera non è possibile

La responsabilità deve riguardare l’intera filiera, altrimenti ha poco senso. Non siamo d’accordo con chi afferma che la responsabilità di un player di mercato finisce nel momento in cui hai venduto gli abiti, e che se succede qualcosa di brutto a valle sono solo le forze dell’ordine a doversene occupare. L’unico modo per rendere strutturalmente virtuose le filiere degli abiti usati è instaurare sistemi di controllo dalla culla alla culla, dove la ricerca dell’efficacia commerciale si sposi appieno con le esigenze etiche e di trasparenza. Noi lo stiamo già facendo, e funziona. Il prossimo passo sarà mettere sotto controllo non solo le filiere del riutilizzo ma anche quelle del riciclo. Del flusso di abiti usati raccolto oggi la quota preponderante continua ad essere avviata al riutilizzo, ma dati gli ambiziosi obiettivi di incremento della raccolta derivanti dall’Unione Europea, si prevede che i flussi cresceranno in quantità ma diminuiranno in qualità. Questo significa che la quota di riciclo, che per ora è minoritaria, su un medio termine potrebbe addirittura raddoppiare. C’è quindi un urgente bisogno di filiere del riciclo più strutturate e sostenibili. Su questo aspetto specifico siamo convinti che sarà determinante l’apporto degli organismi collettivi dell’EPR: servono infatti operazioni industriali di grande scala.

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