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GPS negli abiti usati, la verità da interpretare

Mercoledì 09 Ottobre 2024

Articolo apparso a settembre su Oltreilgreen24, newsletter di approfondimento realizzata dal Gruppo Safe in collaborazione con il Sole24ore. Si ringrazia il Gruppo Safe per la gentile concessione.

Il problema dei rifiuti tessili

Ormai il messaggio è passato: il settore dei rifiuti tessili ed abiti usati è problematico. I giornalisti e gli ambientalisti, nostrani e di tutto il mondo, se ne sono accorti, e da cinque anni a questa parte si moltiplicano le inchieste, a volte di fortissimo impatto, che mostrano imprenditori del settore in fragranti illeciti e immagini shock sull’abbandono dei vestiti usati nei corpi d’acqua ghanesi piuttosto che nel deserto di Atacama in Cile. In queste inchieste uno degli strumenti più efficaci è l’inserimento di GPS in abiti usati o invenduti, e alla luce del loro percorso vengono pronunciati verdetti sulle raccolte comunali del tessile, sul sistema di recupero dei resi online o sulle raccolte take back organizzate dai distributori presso i negozi retail.

gps-abiti-usati

L’uso del GPS 

“L’utilizzo di GPS nelle inchieste dei giornalisti e delle organizzazioni ecologiste è diventato ormai abituale” commenta il Responsabile Tessile di SAFE Massimiliano Marin. “Queste inchieste hanno il grande merito di far scoprire all’opinione pubblica che il sistema non funziona bene, e che al di fuori di efficaci schemi di controllo le filiere del recupero non sono affidabili. Il GPS è uno strumento di forte impatto, perché mostra verità tangibili, che disinnescano qualsiasi falsificazione documentale o bugia relativa al percorso dei vestiti usati”.

“Occorre però fare estrema attenzione alle interpretazioni date dai giornalisti a proposito dei fatti che vengono alla luce”, avverte l’esponente di SAFE. “Il settore è complesso, e se l’analisi non viene fatta con profondità è facile fare confusione. In questo ambito orientare la coscienza collettiva con messaggi distorti è molto rischioso, perché la politica tende a prendere decisioni tenendo conto della percezione generale. Nel caso specifico degli indumenti, è frequente che a essere condannata senza possibilità di appello sia l’esistenza stessa delle filiere del recupero, ossia delle catene di valore economiche internazionali che rendono possibili i risultati ambientali. Lo scoop più grande è che i vestiti non vanno ai poveri, e di fronte a questo messaggio i veri problemi passano in secondo piano”.

Abbiamo chiesto a Marin di commentare, a titolo di esempio, tre note inchieste basate sull’inserimento di GPS negli abiti usati.




Caso Le Iene

Nel 2019 Le Iene hanno inserito un GPS in un contenitore stradale di rifiuti tessili a Milano, gestito da una cooperativa sociale legata a un noto ente caritatevole. Il GPS è andato a finire in un grande impianto autorizzato della provincia di Caserta, gestito da un’impresa privata. Le Iene si sono recate all’impianto fingendosi potenziali acquirenti di stock di abiti usati, e hanno documentato con telecamere nascoste un tentativo di vendita al nero. “Nel servizio delle Iene” ci dice Marin “la trasmissione televisiva ha scelto di porre la maggiore enfasi non sulla vendita al nero dei prodotti, ma sul fatto che gli abiti raccolti dalla cooperativa non fossero stati donati ai poveri nonostante sul contenitore giallo ci fosse il logo dell’ente caritatevole; ma in realtà quei contenitori spiegano chiaramente che gli abiti vengono venduti per ottenere denaro da impiegare in progetti solidali. Forse qualcuno avrebbe potuto aspettarsi una filiera economica e commerciale gestita interamente da soggetti non profit, senza nessun lucro in nessun passaggio, ma a essere messa in discussione dalle Iene è stata l’esistenza in sé di una filiera. Nel servizio giornalistico è stato presentato come uno scandalo anche il prezzo degli stock: qualche euro al kg chiesti all’acquirente degli stock selezionati, a fronte delle decine di centesimi pagati alla cooperativa raccoglitrice, mostrando che a beneficiarsi della donazione gratuita del cittadino è soprattutto un imprenditore che agisce a fini di lucro. Occorre però tenere conto che preparare uno stock selezionato implica un importante valore aggregato; all’origine la cooperativa ha dovuto pagare gli autisti che svuotano i contenitori e i costi di magazzino; poi sono stati sostenuti i costi di trasporto all’impianto gestito dall’imprenditore, il quale ha dovuto pagare gli operai cernitori, farsi carico dello smaltimento della quota di scarto, e compiere ulteriori selezioni per arrivare a uno stock contenente solo vestiti di alta qualità. Ciò ovviamente non giustifica il commercio al nero, ma di per sé l’aumento di prezzo rispetto al rifiuto originale è naturale, e se non avvenisse non ci sarebbero imprenditori disposti a fare il riutilizzo; le donazioni ai poveri non sono un’alternativa, perché i volumi di abiti usati sono troppi e possono essere assorbiti solo in presenza di filiere economicamente sostenibili e strutturate commercialmente”.

Greenpeace e Report

A febbraio 2024, Greenpeace Italia e Report hanno divulgato i risultati del percorso di 24 capi acquistati online da grandi marchi e poi avviati al sistema dei resi. A fronte di un rapporto in versione integrale che fornisce maggiori dettagli, la stampa nazionale ha dato eco soprattutto al numero di km percorsi da questi capi di abbigliamento, sottolineando l’impatto ambientale del trasporto. Una media di 4.502 chilometri percorsa in camion, aerei, furgoni e navi. I capi sono stati rivenduti più volte, passando da un’impresa all’altra. “Anche in questo caso” spiega Marin “a essere messa sotto accusa è l’esistenza stessa di una filiera internazionale, nonostante le analisi di impatto ambientale dimostrino che, anche a fronte di viaggi extra-continentali, il riutilizzo rimane la migliore opzione; pensare a una distribuzione di usato interamente basata sul retail europeo è complicato, perché il mercato della seconda mano, strutturalmente, non è sufficiente ad assorbire l’offerta territoriale. L’indice dei km percorsi, in quanto tale, è utile solo se inserito in un’analisi globale del ciclo di vita del prodotto, ossia se oltre all’impatto ambientale del trasporto si valutano anche altri fattori, come l’impianto che seleziona il prodotto e la destinazione di recupero a valle dall’impianto. A volte l’impatto ambientale minore può essere garantito solo percorrendo molti chilometri”.




Change Markets Foundation

Più recentemente, a luglio 2024, sono stati divulgati i risultati di un’inchiesta di Change Markets Foundation, che ha tracciato il percorso di 21 capi in “perfette condizioni” conferiti nei punti di raccolta take back posizionati presso i negozi retail di 4 noti brand internazionali, in Belgio, Germania, Francia e Regno Unito. I brand vengono accusati di comunicazione ingannevole, perché promettono un utilizzo “circolare” di quanto raccolto; ma dall’inchiesta emerge invece che “solo 5 capi sono rimasti in Europa ed avviati a negozi di seconda mano”, mentre “tre quarti dei capi sono stati distrutti, lasciati in un magazzino oppure mandati in Africa”. Nella quota incriminata la fondazione include anche tre capi inviati in Ucraina, dove le “regole di importazione si sono rilassate a causa della guerra”, e quegli abiti che sono stati “triturati” per il riciclo. Change Markets afferma che “nessuno dei brand che riceve gli abiti in donazione offre registri pubblici del loro percorso”. Gli abiti sono “invece” affidati a compagnie specializzate in riuso, riciclo e smaltimento”. Queste dichiarazioni sono state riprese anche da media italiani.

“Le dichiarazioni di Change Markets lasciano perplessi”, commenta Marin.  “Si fa passare l’idea che gli unici capi gestiti in modo legittimo siano quei 5 che sono finiti in negozi europei della seconda mano. Tutti quelli che sono stati avviati a canali di seconda mano fuori dall’Unione Europea, ossia in Africa o in Ucraina, così come quelli riciclati o posti in stoccaggio, sono arbitrariamente assimilati al grande calderone dell’illegittimamente distrutto. Ancora una volta a essere messa in discussione la filiera in sé. Una comunicazione impostata più seriamente avrebbe indicato le percentuali di riutilizzato, riciclato e smaltito, indipendentemente dal paese di operazione, andando poi, eventualmente, a valutare la qualità di ciascuna operazione, così come le ragioni delle scelte prese dai selezionatori. Non tutto ciò che è in buone condizioni è riutilizzabile, perché a determinare l’effettivo riutilizzo è la domanda finale, ossia il consumatore che pagare per comprare l’abito usato e poi l’indossa; se un abito non è rotto ma non ha mercato, è normale che un impianto di selezione lo destini a riciclo oppure, nel caso non sia riciclabile, a un canale di smaltimento. A volte queste scelte prese a monte sono le migliori perché, quando un abito non realmente vendibile raggiunge un retailer della seconda mano, quest’ultimo se ne deve disfare, e difficilmente il suo modo di disfarsene è più appropriato di quello di un impianto di selezione professionale. Il mercato, inoltre, funziona con picchi stagionali, dati dai cambi di stagione autunnali e primaverili; quando comincia a far freddo, la gente si libera degli abiti estivi, e quando inizia il caldo si liberano di quelli invernali; avere tempi di stoccaggio di qualche mese è fisiologico, perché gli operatori si trovano in mano abiti estivi quando fa freddo e abiti invernali quando fa caldo; eppure, la fondazione inserisce anche gli abiti stoccati nel computo delle gestioni illegittime. Dei ventuno abiti uno è finito in una discarica in Mali, e probabilmente ciò è accaduto perché l’abito è stato preso in carico da un retailer dell’usato che non è riuscito a venderlo; su questo specifico tipo di situazione c’è un dibattito settoriale in corso, dove si stanno soppesando opzioni alternative e studiando soluzioni, come ad esempio quella di aiutare l’Africa a gestire più appropriatamente i rifiuti”.

“In sintesi” conclude Marin “ i GPS sono molto utili per verificare se una filiera è corretta, ma le considerazioni sulla validità dei flussi vanno fatte da esperti del settore in grado di capire se è stata applicata la migliore opzione possibile”.

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