In Africa il riuso non è povertà ma cultura
Pietro Luppi
Nell’Africa Subsahariana riuso e riparazione rappresentano una fetta importante dell’economia, proporzionalmente molto più importante che nelle aree più “sviluppate” del mondo. Kenya e Nigeria, ad esempio, importano a testa circa 600 milioni di capi di abbigliamento usati ogni anno (tra i 6 e i 10 abiti pro-capite); nel caso kenyota il giro d’affari generato dai servizi di riparazione è stato stimato dal Better Futures Colab in un 1,5% del PIL (quasi quanto la somma di agricoltura, pesca, allevamento e attività mineraria in Italia) e impiega nientemeno che l’83% della forza lavoro nazionale. Sarebbe un errore associare questo fenomeno esclusivamente alla povertà, ossia all’impossibilità di comprare oggetti nuovi. In Africa riuso e riparazione sono molto di più: sono lo specchio di una cultura secolare in continuo rinnovamento, basata su creatività, essenzialità, solidarietà e valorizzazione delle risorse. A sottolinearlo è anche la Fondazione McArthur, tra i principali think tank mondiali dell’Economia Circolare, che in un report del 2023 spiega che nelle economie africane del riuso e della riparazione il fattore economico ha di sicuro una sua importanza, ma ad essere ancora più determinante è l’atteggiamento dei consumatori, che hanno un genuino e consolidato interesse verso questo tipo di offerte.
La Fondazione presenta come casi virtuosi imprese africane di upcycling (realizzazione di nuovi prodotti a partire da oggetti usati) posizionate con successo sul mercato internazionale. In realtà, al di là delle imprese formalizzate e con vocazione all’export, in Africa l’upcycling è soprattutto un settore mainstream rivolto ai mercati locali, caratterizzato da competenze diffuse di stilismo e redesign dei prodotti, i quali sono molto spesso oggetti usati d’importazione che vengono magistralmente riadattati al gusto autoctono. Nella maggior parte dei casi si tratta di abiti che hanno difetti, o un valore di partenza molto basso, e che grazie a questi interventi possono essere venduti a un prezzo molto maggiore (pur rimanendo accessibili).
Nei grandi mercati delle metropoli africane esistono interi reparti, composti a volte da centinaia di operatori, dove gli abiti vengono ristilizzati sotto gli occhi dei clienti, in fitti banchi di legno coperti da tendoni dove i punti di passaggio sono ricoperti da ritagli colorati sui quali, letteralmente, bisogna camminare, e che vengono raccolti ogni sera dai waste pickers del mercato. A essere all’ordine del giorno è anche la decontestualizzazione degli oggetti che hanno esaurito la loro funzione originaria: pneumatici che diventano altalene o addirittura scarpe, barattoli che diventano bicchieri, reti di materasso che diventano porte e scarti di apparecchi elettronici che diventano gioielli. Il livello estetico di queste soluzioni riserva spesso piacevoli sorprese.
Nei paesi subsahariani riuso e riparazione sono ampiamente legati alle cosiddette “economie del dono”, ben descritte da Serge Latouche nel suo famoso libro “L’Altra Africa”. Reti di solidarietà dove prodotti usati e servizi di ogni genere, spesso di riparazione, vengono offerti gratuitamente a persone conosciute sapendo che, al momento del bisogno, tale generosità verrà ricambiata in altre forme. È il caso, ad esempio, degli abiti usati invenduti dei mitumba (i mercati dove si vendono vestiti usati) che in molti contesti locali vengono sistematicamente regalati alle famiglie del quartiere. Un sistema neo-clanico, che riproduce nelle grandi metropoli le soluzioni economiche comunitarie applicate tradizionalmente negli insediamenti rurali; i tessuti comunitari in Africa non sono deteriorati come in altri luoghi del mondo, e hanno la capacità riconfigurarsi e reinventarsi nei contesti urbani, estendendo il concetto di comunità oltre i confini strettamente tribali della società tradizionale. Ciò che da un punto di vista occidentale tendiamo a considerare arretratezza, può essere in realtà l’embrione di innovativi percorsi di sviluppo basati sulla sostenibilità sociale ed ambientale. Percorsi che i paesi più “sviluppati” cercano affannosamente di creare attraverso la politica pubblica, ma senza voler intaccare fino in fondo stili di vita e modelli economici che sono basati sull’individualismo e sul consumo sfrenato.
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