Centri di Riuso: cosa sono?
Sapere cosa è un Centro di Riuso non è un’impresa facilissima. In ogni settore esistono definizioni formali fissate dalla norma e terminologie che sono invece solo di uso popolare. Un negozio di alimentari, soprattutto in centro Italia, può essere correttamente chiamato “pizzicagnolo”, senza bisogno che una norma scritta lo definisca allo stesso modo; ma ciò non toglie che tale parola sia inadeguata quando si tratta di questioni burocratiche e normative. Il Centro di Riuso, o Centro per il Riutilizzo, è un concetto borderline, richiamato a volte dalla norma ma senza che esista un riferimento definitorio chiara ed univoco. E questa è una brutta gatta da pelare, considerando che i cosiddetti Centri di Riuso sono costantemente oggetto di interventi di politica ambientale, includendo finanziamenti ed incentivi che hanno un impatto sui mercati locali della seconda mano.
Il Centro di Ricerca Rifiuti Zero, in uno studio/censimento di carattere non accademico, che dal 2021 è in continuo aggiornamento, ha inserito nel calderone dei Centri di Riuso una discreta quantità di strutture che donano o vendono merci usate; in oltre un terzo dei casi, la vendita viene definita come una donazione che riceve una “contropartita” in denaro (fattispecie che sembra corrispondere, sostanzialmente, a una vendita al nero); in quanto ad approvvigionamento, le strutture elencate da Rifiuti Zero reperiscono i beni usati presso i Centri di raccolta comunali, mediante sgombero locali oppure ricevendo donazioni in maniere che sono slegate dalla logistica dei Centri di Raccolta comunali. In base a questo approccio il “Centro di Riuso”, in linea teorica, potrebbe essere qualsiasi negozio che venda cose usate, o qualsiasi centro Caritas che riceva e ridistribuisce donazioni.
L’integrazione con i Centri di raccolta comunali
È però accezione comune, anche se non esplicitata formalmente, che un Centro di Riuso per essere definito come tale debba essere gestito da un soggetto non profit (ad esempio un’associazione o una cooperativa sociale), e che questo soggetto non profit debba agire di concerto con un ente locale o azienda di igiene urbana, in base a layout e schemi operativi che presuppongono una qualche sorta di adiacenza o integrazione con un Centro di raccolta comunale. Non a caso, in alcuni testi normativi o di pianificazione e indirizzo, di emanazione ministeriale o regionale, i Centri di Riuso, o Centri per il Riutilizzo, sono menzionati facendo un rimando diretto al comma 6 dell’art. 181 del Dlgs 152/06 (il Testo Unico Ambientale):
6. Gli Enti di governo d'ambito territoriale ottimale ovvero i Comuni possono individuare appositi spazi, presso i centri di raccolta di cui all'articolo 183, comma 1, lettera mm), per l'esposizione temporanea, finalizzata allo scambio tra privati, di beni usati e funzionanti direttamente idonei al riutilizzo. Nei centri di raccolta possono altresì essere individuate apposite aree adibite al deposito preliminare alla raccolta dei rifiuti destinati alla preparazione per il riutilizzo e alla raccolta di beni riutilizzabili. Nei centri di raccolta possono anche essere individuati spazi dedicati alla prevenzione della produzione di rifiuti, con l'obiettivo di consentire la raccolta di beni da destinare al riutilizzo, nel quadro di operazioni di intercettazione e schemi di filiera degli operatori professionali dell'usato autorizzati dagli enti locali e dalle aziende di igiene urbana.))
Il gran “pappone” del comma 6 dell’art.181, permette fondamentalmente di fare dentro ai Centri di raccolta comunali qualsiasi cosa purché sia finalizzata al riutilizzo (evitando di classificare i beni come rifiuti, nonostante siano stati conferiti in una struttura adibita alla raccolta dei rifiuti) o alla preparazione per il riutilizzo (prendendo atto che ciò che è conferito in un Centro di raccolta è un rifiuto che va avviato a filiere dotate delle opportune autorizzazioni per il trasporto, stoccaggio e trattamento dei rifiuti, dove i beni usati sono reimmessi in circolazione solo dopo aver compiuto una selezione ed altri eventuali interventi).
Nell’articolo 181 però, né al comma 6 né negli altri commi, si menzionano esplicitamente i Centri di Riuso o Centri per il Riutilizzo. Quando il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, o chi per lui, parla di questi Centri facendo un rimando a questo comma, sembra assumere, in automatico, che tutte le opzioni di riutilizzo elencate siano riconducibili al concetto di Centro per il Riutilizzo. Quest’ultimo quindi sarebbe uno “spazio” che, su iniziativa facoltativa dei Comuni e degli ATO, può essere integrato nel layout di un Centro di raccolta comunale al fine di intercettare, raccogliere, scambiare merci usate e/o avviarle alle filiere degli operatori professionali dell’usato (questi ultimi devono essere autorizzati dagli enti locali e dalle aziende di igiene urbana).
In mezzo a questa potenziale confusione (sarebbe divertente immaginare cosa accadrebbe se un Comune decidesse di adottare contemporaneamente all’interno di un Centro di raccolta tutte le opzioni permesse dalla legge!), i Centri di Riuso in Italia proliferano, e rasentano ormai il numero di 200. In alcuni casi, come nelle Marche, in Abruzzo e in Friuli-Venezia Giulia, i regolamenti regionali impongono il principio che essi non possano vendere i beni usati ma solo regalarli; in altri casi, come quello più recente del Veneto, si stabilisce a chiare lettere che solo gli enti non profit possono gestire i Centri di Riuso.
Un’escamotage da superare
Alessandro Giuliani, citato nel Rapporto Nazionale sul Riutilizzo 2024, ha spiegato che “i primi Centri di Riuso nascono circa vent’anni fa, in alcuni Comuni del nord e del centro Italia, come escamotage per riutilizzare e reimmettere in circolazione i beni durevoli riutilizzabili conferiti come rifiuti nei centri di raccolta comunali. Nei Centri di Riuso, che normalmente sono posti in adiacenza o all’interno dei centri di raccolta comunali, ciò che si considera riutilizzabile può essere intercettato e gestito come se non fosse un rifiuto (…) perché applicare questo tipo di formule invece di soluzioni più strutturate, come avviene con il recupero degli altri rifiuti? Perché i Centri di Riuso non alimentano le filiere del riutilizzo? La filiera per assorbire i beni riutilizzabili intercettati nei centri di raccolta ci sarebbe, ed è assolutamente consolidata” ha evidenziato l’esponente del settore dell’usato.
“Il settore impiega 100.000 addetti in Italia e reimmette annualmente in circolazione circa 500.000 tonnellate di beni. I player sono di vario tipo: negozi dell’Usato Conto Terzi, Negozi tradizionali, mercati dell’usato, fiere, negozi specialistici. E oltre ai canali nazionali ci sono quelli esteri: in Asia, Africa ed Europa orientale esistono filiere strutturate che già oggi assorbono stock di beni usati provenienti dall’Europa Occidentale e Centrale. Per comprendere l’attuale impostazione dei Centri di Riuso, che è un’impostazione informale, occorre innanzitutto tener conto di un fatto importante: i Centri di Riuso sono nati e si sono sviluppati in assenza di un quadro normativo sui rifiuti che offrisse appigli chiari per implementare procedure di end of waste finalizzate al riutilizzo. La dimensione informale e solidaristica che tutt’oggi caratterizza i Centri di Riuso ricorda le raccolte di abiti usati curate dalle Caritas parrocchiali fino alla fine degli anni ’90, che poi sono state in gran parte sostituite dalla cooperazione sociale incaricata di svolgere i servizi di raccolta differenziata del rifiuto tessile. Gli indumenti usati hanno avuto una linea di sviluppo diversa da quella di tutte le altre frazioni riutilizzabili per una ragione molto semplice: nel Decreto Ministeriale del 5 febbraio 1998, la possibilità di reimpiego di un bene durevole era prevista solamente per i rifiuti tessili, che grazie a questa possibilità sono intercettati in tutta Italia in specifiche raccolte differenziate, per poi essere trattati come rifiuti in impianti autorizzati”.
Confluire sulla Preparazione per il Riutilizzo
Ora la ragione dell’escamotage non esiste più, perché il Testo Unico Ambientale così come aggiornato nel 2020 (Dlgs 116/2020) e l’apposito Decreto Ministeriale pubblicato nel 2023 (D.M. del 10 luglio 2023, n. 119), rendono possibile autorizzare, senza equivoci di sorta, impianti di Preparazione per il Riutilizzo che possono trattare l’intera gamma delle merceologie riutilizzabili. Prisca, progetto nominato nell’aprile del 2015 dalla Commissione Europea “miglior progetto Life+ Ambiente a livello europeo” ha dimostrato che facendo confluire le attività preesistenti di un Centro di Riuso a operazioni di Preparazione per il Riutilizzo, è possibile portare a una scala maggiore e più efficiente operazioni che altrimenti funzionano in modo scoordinato e inefficiente. Inoltre, la coesistenza di Centri di Riuso e impianti di Preparazione per il Riutilizzo è disfunzionale perché i Centri di Riuso fanno cherry picking a monte degli impianti minacciandone la sostenibilità commerciale ed economica.
Anche il Rapporto Nazionale sul Riutilizzo 2024 pone enfasi sull’”opportunità di far confluire l’esperienza dei Centri di Riuso nell’ambito della Preparazione per il Riutilizzo, ossia in filiere controllate, caratterizzate da tutti i vincoli ambientali e di tracciabilità del rifiuto. (…) Classificare come rifiuti i beni intercettati nei centri di raccolta è molto importante, perché la creazione di flussi paralleli originati dagli snodi logistici del rifiuto, infatti, rischia non solo di creare filiere scarsamente controllate che potrebbero suscitare appetiti da parte di soggetti torbidi, ma anche di creare, a causa dell’inefficienza del sistema, costi aggiuntivi che poi ricadranno sulle famiglie (ecotasse legale alla responsabilità del produttore e/o rincari nelle tariffe rifiuti)”.