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Riflessioni su Economia Sociale e Riutilizzo (2)

Mercoledì 11 Gennaio 2023

Pietro Luppi

Raccolgo con grande piacere l’invito di Alessandro Giuliani a contribuire al ragionamento su Economia Sociale e Riutilizzo. E’ infatti un tema che sento molto e sul quale ormai da vent’anni rifletto profondamente. Una riflessione che ha generato una serie di punti di domanda che, a più riprese, ho avanzato sia pubblicamente che nelle associazioni di categoria. Domande a volte sgradevoli che inizialmente ponevo con ingenua tranquillità, nella sicurezza che avrebbero provocato un intenso ma sano dibattito. Non immaginavo di certo che il loro impatto, travaricando ogni limite accettabile, avrebbe cambiato radicalmente il corso della mia vita personale e professionale sottoponendola a pressioni di tutti i generi. Il fatto che la maggior parte di queste pressioni arrivasse proprio da certi settori del non profit, mi ha fatto comprendere quanto siano gravi ed esacerbate alcune delle criticità da me individuate. Questa situazione mi ha portato, nel corso dell’ultimo decennio, a portare avanti la critica al non profit dedito al riutilizzo non solo con il rigore tecnico che richiede il mio lavoro ma anche con la passione di una battaglia civile. Passione perché amo il non profit con tutto il cuore: se vedi un padre, una madre, un figlio o un fratello malato di cancro non puoi far finta di nulla e tapparti gli occhi. Da adolescente e da molto giovane militavo nelle ONG, nell’associazionismo e nei movimenti battendomi per la giustizia economica globale, organizzando campagne, facendo giornalismo alternativo e promuovendo il commercio equo e solidale. Dal 2003, con l’associazione Occhio del Riciclone, mi sono occupato specificatamente del tema del Riutilizzo focalizzandomi su percorsi di inclusione ed emersione dei soggetti più vulnerabili. Nei primi dieci anni di questo percorso ho lavorato soprattutto con le cooperative sociali portando io stesso avanti in prima persona, in qualità di vicepresidente, una cooperativa sociale. Tutt’ora considero la cooperazione sociale un faro di umanità in un sistema economico dove la dittatura dei numeri conduce spesso a conseguenze spietate e paradossali.

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Provo a sintetizzare qui di seguito in quattro macropunti quelle che considero le principali criticità in relazione al settore non profit che si occupa di Riutilizzo:

I. La dipendenza dalle pubbliche amministrazioni locali, che incaricano associazioni e cooperative sociali di servizi come la raccolta di abiti usati e la gestione di Centri di Riuso o concedono loro finanziamenti o altri benefici per la realizzazione di progetti di utilità collettiva. Vivere delle risorse pubbliche locali non è facile perchè significa essere ostaggio della dinamica politica e dei capricci delle amministrazioni di turno. Una situazione di vulnerabilità che spesso viene superata mettendo in campo meccanismi di pressione, influenza o addirittura controllo verso i centri decisionali dell’amministrazione pubblica di riferimento. A volte questa attività avviene per mezzo di reti locali il cui fine è sensibilizzare la politica locale attorno a tematiche sociali, gestendo campagne permanenti che poi, nel concreto, si traducono in finanziamenti e incarichi a favore di chi le porta avanti. Si tratta evidentemente di una zona grigia dove il confine tra l’attivismo sociale ed ambientale e il clientelismo e il traffico di influenze diventa molto labile. In questo quadro il Codice degli Appalti, che impone gare ad evidenza pubblica e libera concorrenza tra i candidati fornitori dei servizi, viene sistematicamente aggirato e le turbative d’asta diventano un fatto normale. A volte l’articolo 112 del Codice, che consente di riservare gare a chi impiega soggetti svantaggiati, viene enfatizzato oltre ogni ragionevolezza andando a neutralizzare l’articolo 30, che stabilisce che la concorrenza non possa essere limitata al fine di favorire specifici gruppi o soggetti. Violare l’articolo 30 del Codice degli Appalti non è un vizio di forma o un peccato senza vittime: servizi e progetti di utilità collettiva, per funzionare a dovere, dovrebbero assegnati ai soggetti con le migliori capacità, non a quelli più abili nello sviluppare pressioni. Sarebbe però errato attribuire ai leader degli enti non profit l’intera responsabilità di questi fatti: in molti contesti locali, infatti, è praticamente impossibile lavorare se non entrando in questo tipo di dinamiche. E’ un cane che si morde la coda. E così a prendere il timone delle cooperative, molto spesso, non sono i migliori manager sociali ed ambientali, ossia quelli in grado di produrre i migliori risutati di utilità collettiva, ma i migliori politici, ossia coloro che sono in grado di sviluppare sufficiente pressione verso le amministrazioni e ottenere gli incarichi. Se poi l’approccio eccessivamente politico si traduce in scarsa efficienza e in maggiori costi, non è un problema perché a pagare è l’amministrazione pubblica. Al contrario, più soldi arrivano più le strutture non profit diventano solide.

II. In alcuni casi, il non profit impiega la propria forza politica per promuovere modelli di servizio che non sono efficienti e che non sono idonei per il raggiungimento degli obiettivi di utilità collettiva. Il motivo è semplice: certe cooperative e associazioni, non sentendosi in grado di sviluppare e gestire modelli efficaci, cercano di imporre formule che siano operativamente alla loro portata. Per questa dinamica, che ho osservato in vari paesi del mondo e non solo in contesto europeo, ho proposto una definizione: sistemi di adattamento inverso. Sono sistemi dove l’efficacia di un servizio pubblico, nonostante l’esistenza sul mercato di idonee capacità operative e tecnologiche, viene sacrificata al fine di favorire un gruppo specifico che non è portatore di tali capacità. E’ il caso dei Centri di Riuso, che in tutta Italia continuano a essere progettati e finanziati in base a soluzioni tecniche di bassissimo livello nonostante sia evidente il bisogno di soluzioni industriali (nei centri di raccolta comunali la quasi totalità dei rifiuti preparabili per il riutilizzo continua ancor oggi a essere avviato a smaltimento). In generale, è frequente che il non profit utilizzi il proprio appeal verso la politica per attrarre ogni fondo pubblico disponibile relativo a riutilizzo, riparazione e prevenzione dei rifiuti, lasciando privi di risorse, visibilità e riconoscimento i micro-operatori del riutilizzo e della riparazione che, a migliaia e lontano dai riflettori, svolgono realmente questo lavoro producendo importanti risultati ambientali. A volte questi micro-operatori, lungi dall’essere sostenuti, sono vessati da norme e oneri irrazionali e che non tengono conto della natura della loro attività. La chiave perché le risorse vengano dirottate solo su certi gruppi e non sui veri operatori del riutilizzo è l’argomento del “non profit”, al quale ogni beneficio deve essere riservato. Fuori dal “non profit” però esistono importanti arcipelaghi di forze produttive, economiche e popolari che per sopravvivere hanno bisogno di essere riconosciute e la cui dimensione “lucrativa”, nella stragrande maggioranza dei casi, è solo questione di forma.

III. Un elemento consolidato in molte reti del non profit (forse la maggior parte!) è la rigorosa spartizione di servizi e territori. E’ raro che una cooperativa sociale inserita in queste reti vada sconfinare in ambiti che “appartengono” a un altro membro, e chi viola questa regola è disprezzabile e va punito con il massimo castigo: la conventio ad excludendum, ossia l’esclusione dalle reti che ti permettono di lavorare. Autoreferenzialità e convinzione di “possesso” in relazione al bene pubblico (appalti, territori, ecc..) sono diventati i pilastri di un sistema valoriale parallelo a quello formale. Un sistema valoriale che, nonostante i residui idealistici utilizzati nelle operazioni di comunicazione e marketing, ha assunto la forma di un rozzo neotribalismo, che quando interagisce con la pubblica amministrazione genera inevitabilmente gravi disfunzionalità e sovvertimento delle norme democratiche.

IV. In alcuni importanti aspetti relativi alla gestione del territorio la somiglianza tra la Mafia e certe reti non profit è lampante e negli ultimi anni è stata a più riprese sottolineata da autori di libri e giornalisti. Tale somiglianza ovviamente non riguarda tradizione culturale, metodi di regolamento dei conti e tipo di business, ma diventa vera e propria affinità quando non profit e mafia uniscono le loro forze. Nel caso del riutilizzo, è conclamato il fenomeno del non profit che utilizza il suo prestigio locale per ottenere servizi di raccolta di abiti usati dando vita a filiere criminali. Gli abiti raccolti vengono infatti rivenduti a soggetti criminali, o collegati a soggetti criminali, che con i vestiti usati lucrano, riciclano denaro e compiono delitti ambientali. Le cooperative scelgono di lavorare con questo tipo di soggetti a volte per intimidazione, a volte per convenienza di mercato, e altre volte per ottenere denaro nero che viene usato per sostenere i costi di struttura o, probabilmente, per foraggiare gli enti caritatevoli che hanno offerto la loro benedizione e influenza perché l’incarico di raccolta venisse assegnato. Chi mette in discussione il lavoro di queste cooperative, ad esempio azzardandosi a far loro concorrenza in un appalto, non rischia solo la già menzionata conventio ad excludendum ma anche minacce di morte e attentati. Questa situazione è stata presentata alla Commissione Ecomafie dalle procure, dai vertici di Carabinieri e Guardia di Finanza e dalle associazioni di categoria. Nel settore degli abiti usati la criminalità organizzata cerca la sinergia con il non profit per un motivo molto specifico: quest’ultimo, grazie alla sua influenza sulle amministrazioni locali, è in grado di aggirare il Codice degli Appalti e di garantire flussi di abiti usati stabili e duraturi. Le imprese gestite dai criminali non hanno il profilo adatto per interagire con le pubbliche amministrazioni, e hanno difficoltà a farlo soprattutto al nord, dove i flussi di abiti usati hanno maggiore qualità e valore. Per questa ragione nel 2022 la Commissione Ecomafie, nella sua relazione finale sul fenomeno , ha definito il sistema di turbativa d’asta e spartizione territoriale applicato dal non profit come un “magnete” che inevitabilmente attira gli interessi criminali. E, aggiungo io, se la situazione non cambia ciò che è accaduto con gli abiti usati accadrà di sicuro con i Centri di Riuso (che sono in procinto di ricevere grandi finanziamenti per diventare una realtà di intercettazione sistematica dei beni riutilizzabili nell’intero territorio italiano).




Morale della favola? Il non profit è vivo, è utile ed è indispensabile, e sicuramente può giocare un ruolo di qualità nel settore del riuso. Ma perché rimanga vivo deve curarsi delle sue malattie e apprendere a integrarsi in modo più funzionale con la società, con le istituzioni e con il resto del settore. Sono molte le realtà non profit che già operano in modo funzionale e che, nonostante le molte difficoltà, hanno sempre lavorato in maniera impeccabile. E’ da esse che occorre partire per immaginare nuovi scenari. Aldo Barbini, esponente storico della cooperazione sociale veneta, ha detto: “Andrebbe trovata un’alchimia per cambiare la situazione conservando, allo stesso tempo, tutto il buono del passato. Il regime competitivo in cui siamo stati catapultati di sicuro non riusciamo a sostenerlo”. Come fare? La ricetta ancora non esiste, ma di sicuro in Italia gli ingredienti li abbiamo tutti e sono pronti sul tavolo: ingegno, managerialità, capacità di fare impresa? Ci sono. Sensibilità sociale e know how sociale? Anche loro ci sono. Occorre solo trovare le formule perché si mescolino nel modo più giusto, abbandonando e dimenticando le vecchie identità e roccaforti e mantenendo nella mente e nel cuore solo il risultato.

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