Alessandro Giuliani
La bozza del nuovo regolamento UE, in linea con le priorità ambientali, punta al riutilizzo degli imballaggi. Confindustria ha dichiarato che questo minaccia posti di lavoro nell'industria del riciclo e non è la prima volta che questo argomento viene presentato pubblicamente. La posizione di Confindustria è ben spiegata in questo articolo pubblicato dal Sole24Ore lo scorso 30 ottobre.
Ogni riforma, indubbiamente, porta in sé il rischio di una disruption schumpeteriana: chiusura di unità produttive in favore di altre unità produttive, disarticolazione del mercato e dei settori produttivi, riconversione dei player più dinamici, espulsione dei soggetti meno reattivi.
In questo caso la riforma è grande e profonda e si chiama Economia Circolare. Comprensibile la posizione di chi difende i propri interessi e quelli dei propri lavoratori, ma servirebbe un punto di vista più ampio per valutare l’intera posta in gioco, senza scordarsi che a parità di peso un bene riutilizzato non solo è ecologicamente più conveniente ma produce più posti di lavoro e distribuisce maggiormente la ricchezza. Proviamo quindi ad ampliare lo zoom.
Confindustria, nella premessa del suo Rapporto sull’Economia Circolare del 2018, ha sottolineato che, a livello internazionale, “la distribuzione di risorse appare fortemente sbilanciata: America Latina e Australia sono i più importanti fornitori di materie a livello globale. L’Asia invece è caratterizzata da un dinamismo tale che le permette, da sola, di estrarre, esportare, importare e consumare circa metà della totalita delle materie utilizzate a livello globale. Gli alti livelli di produttività che hanno caratterizzato le economie dei Paesi industrializzati potrebbero quindi non essere sufficienti a garantire la necessaria autonomia nell’approvvigionamento di risorse. Da questo contesto si comprende facilmente perche l’accesso alle risorse sia diventato, negli anni, una grande sfida economica oltre che ambientale. Pertanto, l’uso efficiente delle stesse deve essere considerato un obiettivo non solo ambientale, ma anche di competitività industriale che quindi non può essere sottovalutato nella definizione di politiche industriali”. Non occorre una laurea in economia per sapere che a sostenere alto il prezzo di un bene o di un servizio e la sua scarsita sul mercato. E partendo da questo facile assunto si intende facilmente che l’economia circolare, che prevede la reimmissione a ciclo continuo di materie prime sul mercato, è perfettamente funzionale a una diminuzione del loro prezzo globale. Un’ottima strategia perche l’industria smetta di essere ostaggio del settore primario. Ma sul piano ecologico cio sara un bene solo e soltanto se la diminuzione dei prezzi prevedibile grazie a questa politica non dara adito a una maggiore produzione: se il minor prezzo determinera un aumento della domanda e degli sforzi per soddisfarla, infatti, saremmo di nuovo al punto di partenza.
Maurizio Pallante, in un articolo pubblicato nel 2022 sul sito dell’associazione SEquS, esprime un concetto analogo con parole molto dure: “Dopo aver accusato per mezzo secolo gli ecologisti di essere nemici della scienza e del progresso, i loro avversari hanno deciso di cambiare strategia e si sono schierati tra le loro fila. Anzi, hanno preteso di prenderne la guida [...]. Con la definizione di economia circolare, che integra quella di raccolta differenziata, si alimenta l’illusione che, se si riutilizzano i materiali contenuti negli oggetti dismessi nell’anno precedente per rifornire la produzione dell’anno successivo, si possa avviare una sorta di moto produttivo perpetuo, continuando a produrre ogni anno di piu e a programmare l’obsolescenza degli oggetti senza aggravare la crisi ecologica. In realta, se il prodotto interno lordo cresce, com’e previsto dal modo di produzione industriale, i materiali recuperati dagli oggetti dismessi nell’anno precedente, anche se venissero riutilizzati al 100% non basterebbero a sostenere la crescita della produzione dell’anno seguente. Inoltre, il riciclo richiede un consumo energetico. Pertanto il consumo di risorse crescerebbe. Meno di quanto se non si facesse nulla, ma crescerebbe. E la crisi ecologica si aggraverebbe. Per contribuire a ricondurre il consumo delle risorse nei limiti della sostenibilita ambientale, l’economia circolare deve essere inserita in un progetto complessivo di riduzione del prodotto interno lordo attraverso la riduzione degli sprechi e l’allungamento della durata di vita degli oggetti. Se non si imposta in questo modo, la proposta dell’economia circolare si riduce a un alibi ambientalista. Lo dimostra il fatto che nel 2021 l’indice di circolarità nei Paesi dell’Unione europea è stato dell’8,6 %. Il 91,4% dei materiali contenuti negli oggetti dismessi non è stato riutilizzato”.
L’Unione Europea, che tiene conto non solo degli interessi industriali ma anche delle istanze dei movimenti e dei partiti ecologisti, nonché delle lobby dei recuperatori e degli operatori del riutilizzo, nel pacchetto sull’economia circolare del 2018 ha stabilito, per ora come principio, che l’obsolescenza programmata deve essere evitata, che i beni progettati dalle industrie devono avere un’adeguata durevolezza, e che la riparazione va incoraggiata. Il pacchetto dell’economia circolare non si limita a porre ambiziosi obiettivi di recupero dei rifiuti (55% di recupero sul totale dei rifiuti prodotti entro il 2025, 60% entro il 2030, 65% entro il 2035), ma sottolinea anche, reiteratamente, che il loro raggiungimento deve essere ottenuto in via prioritaria mediante riutilizzo e preparazione per il riutilizzo. La direttiva include, a chiarissime lettere, anche la preparazione per il riutilizzo tra le operazioni di recupero di rifiuti autorizzabili dalle autorità locali, e chi l’ha scritta pensava sicuramente anche al problema della disoccupazione: nel 2014, quando queste politiche erano in elaborazione, l’Agenzia Europea dell’Ambiente stimava che grazie a una messa a regime della preparazione per il riutilizzo dei beni conferiti tra i rifiuti sarebbe stato possibile creare 800.000 nuovi posti di lavoro (equivalenti a un sesto della disoccupazione giovanile in tutta l’Unione!). Nello stesso periodo, Microsoft, in seguito a un suo studio, affermava che per riutilizzare mille tonnellate annuali di RAEE sono necessari 200 posti di lavoro. Per riciclarle servono invece 15 posti di lavoro, e per smaltirle solo uno. Duecento posti di lavoro per il riutilizzo di 1.000 tonnellate di RAEE a nostro avviso sono un po’ troppi, ma sul fatto che anche sul piano occupazionale il riutilizzo sia l’opzione più performante di sicuro non c'è alcun dubbio.
L’industria, che per abbattere i costi delle materie prime promuove volentieri un’economia circolare fondata sul riciclo, ha invece qualche difficolta nell’incorporare nella sua visione anche il riutilizzo, la riparazione, e la durevolezza dei beni. La legge della scarsita, infatti, non vale solo per le materie prime ma anche per i prodotti finali, e i prodotti di marca, in particolare, riescono a mantenere i loro prezzi alti in base a delicate soglie di immissione sul mercato che il riutilizzo, esattamente come la pirateria, mette continuamente a rischio.
Per risolvere questo annoso problema, che inibisce la partecipazione dell’industria alle sfide del riutilizzo, sono possibili molte soluzioni, a partire da molteplici punti di vista ed interessi. L’importante è che il riutilizzo inizi a far parte della visione di tutti gli attori in campo e che non si facciano barricate per ostacolarlo: altrimenti a soffrirne sarebbero l’ambiente e l’utilità collettiva.