Passato e futuro del riuso solidale (4)
Redazionale
Le migliori attività solidali sono sempre compiute dagli enti non profit? Non è detto. Il non profit quando riesce a funzionare in modo democratico gode senza dubbio del impetu passionale ed idealistico proveniente dalla propria base. Il filosofo Toni Negri definisce “biopower” la forza sprigionata dal basso dai cittadini per perseguire autonomamente obiettivi di miglioramento o trasformazione del mondo: una logica volontaristica, libera ed auto-organizzata, il cui spirito appartiene a ciascuna delle persone coinvolte, in quanto ognuna di esse è in qualche modo “padrona” dell’attività che sta svolgendo. Gli enti profit, d’altro canto, hanno una cultura dell’efficienza e dei risultati che, se genuinamente applicata al sociale, può generare grandi cose (“fare bene per fare il bene”). Secondo l’economista Jeremy Rifkin (vedere in particolare il libro “La società a costo marginale zero”, Mondadori, 2017) nei prossimi anni quasi tutte le imprese saranno in qualche modo “sociali”, perché i consumatori privilegiano sempre di più i prodotti e i servizi che incorporano elementi di utilità collettiva. La rapida ascesa della Corporate Social Responsibility (CSR) potrebbe essere un chiaro sintomo di questo scenario. Nel 2001, secondo le rilevazioni dell’Osservatorio Socialis, solo il 42% delle aziende italiane si impegnava in ambito CSR, nel 2019 erano l’85%. Anche giuridicamente, il confine tra profit e non profit tende a diventare più labile. Grazie alla legge 68 del 1999 le categorie protette (“disabili e minorati”) sono coinvolte negli organici delle aziende private in forme che sono proficue sia per la persona inserita che per le aziende, e il sistema di inserimento prende ulteriormente forma in seguito ai dlgs 81/2015 e 105/2015. Dipendendo dal numero totale di impiegati, le aziende sono tenute a garantire un’aliquota di impiegati appartenenti alle categorie protette e, sempre di più, sviluppano una cultura dell’integrazione lavorativa che trascende il mero aspetto produttivo.
Dal 2016 (art. 1 comma 382 della Legge 28 dicembre 2015, n. 208) le imprese a fine di lucro possono dichiararsi “Società Benefit” impegnandosi a perseguire, oltre il profitto, anche “una o più finalità di beneficio comune” operando “in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse”; ciò implica l’adozione di strategie e modus operandi che bilancino gli interessi dei soci con l’utilità collettiva, e il tutto deve essere dimostrato e rendicontato in specifici bilanci annuali scritti secondo standard di terze parti.
Tra i player dell’usato a scegliere questa formula è stata Leotron, casa franchising che gestisce i brand Mercatopoli, Baby Bazar e Niu.eco, che nel 2023 ha pubblicato il suo primo “bilancio del bene comune” e che, tra le altre cose, destina i proventi della vendita degli esuberi del suo circuito di negozi usati conto terzi a progetti per l’autopromozione delle comunità indigene emarginate. Tra i raccoglitori di abiti usati, dove la solidarietà è storicamente un elemento integrante, a lato del lavoro delle cooperative sociali a fare solidarietà sono anche soggetti formalmente registrati come “profit”, come ad esempio Humana People to People Italia, che non redistribuisce gli utili tra i soci ma li destina a progetti sociali prevalentemente ubicati in Africa, India e America Latina, e la Nicoletti Servizi, che storicamente destina a progetti solidali quote superiori al 10% dei propri ricavi. Ne “La Rivincita dell’Usato” Valentina Rossi, dirigente dell’azienda, ha sottolineato che “chi conosce il settore e i margini economici con cui operano i raccoglitori sa perfettamente che riservare oltre il 10% del proprio fatturato alla solidarieta non e affatto facile. La maggior parte degli enti che si dichiarano solidali non riesce a raggiungere margini così alti. Noi non ci dichiariamo solidali, siamo una semplice impresa a conduzione familiare e per questo motivo non godiamo ne di sgravi fiscali ne di elargizioni di denaro. Ma se invece che guardare le etichette si andassero a verificare i risultati, molti pregiudizi cadrebbero all’istante”.