Passato e futuro del riuso solidale (3)
Redazionale
Il codice degli appalti (Dlgs 36/2023), in continuità con il precedente codice (Dlgs 50/2016) consente di riservare le gare chi impiega persone svantaggiate, e tale formula è stata spesso usata nelle gare per l’affidamento del servizio di raccolta degli abiti usati. Nell’articolo 61 del codice è scritto che: “Le stazioni appaltanti e gli enti concedenti possono riservare il diritto di partecipazione alle procedure di appalto e quelle di concessione o possono riservarne l'esecuzione a operatori economici e a cooperative sociali e loro consorzi il cui scopo principale sia l'integrazione sociale e professionale delle persone con disabilita' o svantaggiate, o possono riservarne l'esecuzione nel contesto di programmi di lavoro protetti quando almeno il 30 per cento dei lavoratori dei suddetti operatori economici sia composto da lavoratori con disabilita' o da lavoratori svantaggiati”.
Ma disgraziatamente il sistema di appalti strutturatosi attorno alle cooperative sociali presenta alcune gravi criticità che sono emerse, e continuano ad emergere, in gran numero di inchieste giudiziarie. Correva l’anno 2015 quando, in seguito alla vicenda di corruzione che i media hanno denominato “Mafia Capitale”, dove le cooperative sociali erano al centro di un sistema di tangenti, appalti truccati e infiltrazioni criminali, il prefetto di Roma Gabrielli definiva una “riserva di caccia” la norma che riservava il 5% degli appalti alle cooperative sociali. A Roma e Provincia le filiere dei rifiuti tessili urbani erano dominate da gruppi camorristici, che sfruttavano l’appeal delle cooperative sociali sui Comuni, così come i loro meccanismi di spartizione territoriale, per aggiudicarsi i flussi di abiti usati sempre e comunque e in barba a qualsiasi logica di libero mercato. La possibilità di inserire carcerati nelle proprie squadre di lavoro veniva a volte sfruttata dalle cooperative per coinvolgere i mafiosi nelle proprie attività (e questi ultimi, formalità a parte, non avevano di certo un ruolo subordinato). Una vicenda che il giudice Simonetta D’Alessandro ha definito “eccezionalmente complessa” e in seguito alla quale l’Autorità Garante del Mercato ha deciso di infliggere una salatissima multa ad AMA (la stazione appaltante che aveva selezionato le cooperative sociali per il servizio), accusata di aver concesso che sui contenitori stradali dei rifiuti tessili fossero apposti messaggi solidali per attrarre ingannevolmente i conferimenti dei cittadini, laddove gli atti giudiziari mostravano che i principali beneficiari delle raccolte erano imprese a fine di lucro (facenti in buona parte capo a imprese dominate da criminali!).
Già nel 2013, prima che si conoscessero i fatti romani, la Direzione Nazionale Antimafia metteva a nudo nella sua relazione annuale una durissima verità: “buona parte delle donazioni di indumenti usati che i cittadini fanno per solidarietà, finiscono per alimentare un traffico illecito dal quale camorristi e sodali di camorristi traggono enormi profitti. (…) Certamente in parte dell’attività sono stati rilevati i tipici metodi e strumenti camorristici (…) nonché lo sfruttamento della carica intimidatoria che è nel patrimonio criminale del gruppo stesso”.
Tra il 2019 e il 2022 la Commissione Bicamerale “Ecomafie”, nel quadro di uno specifico filone d’inchiesta sugli abiti usati, udiva i vertici di Guardia di Finanza, Carabinieri e Procura Antimafia, trovando conferma dell’infiltrazione criminale (crescente) nelle filiere e del ruolo degli enti non profit. Il due aprile del 2019 Caritas Italiana, interpellata dalla Commissione, ammetteva di non avere il controllo né la capacità di controllare le filiere degli abiti usati generate dai contenitori con il loro Caritas, e di non avere neanche il controllo del logo stesso, nonostante fosse da essa legalmente registrato. “Per Caritas italiana” sintetizzò ANSA il giorno dell’audizione “risulta molto complicato tenere sotto controllo l'attività delle parrocchie su questi ambiti”. A evidenziare con forza il problema delle turbative d’asta è stato anche Avvenire, il quotidiano dei Vescovi italiani. In un’intervista pubblicata nel 2021 l’operatore di una cooperativa sociale dichiara: “noi facevamo parte di una rete che parlava direttamente con i politici locali, anche ad alto livello. Senza di loro non avremmo avuto il permesso di raccogliere. Nel nostro caso, per molto tempo, bastava che l’ente benefico a cui eravamo legati, nel nostro caso la Caritas, indicasse al Comune la cooperativa e ci affidavano automaticamente il servizio. Poi è cominciato il sistema delle gare, ma non è cambiato molto: chi le scriveva, faceva in modo che vincessimo”. E poi, come se non bastasse: “Ora stiamo più attenti su questo aspetto, ma circa metà del contante continua a girare a nero grazie alla sotto-fatturazione. È denaro liquido e spesso sono proprio le aziende private che portano i borsoni per pagare gli abiti. Non è facile uscire dal sistema; ci sono pressioni, ci veniva detto che dovevamo avere rapporti con la camorra per evitare ritorsioni commerciali o violente. Tutti nel nostro settore sanno che le società che comprano vestiti molto spesso sono legate alla camorra”. Nella sua relazione finale sugli abiti usati (2022) la Commissione Ecomafie ha esplicitato le seguenti considerazioni: “il primo anello della filiera, che consente all’intera rete di approvvigionarsi dei vestiti usati e lucrare con essi, è talora costituito da cooperative sociali Onlus. Dall’analisi delle vicende giudiziarie più importanti risulta una tendenza di tali enti solidali, o caritatevoli, a mettere a disposizione degli operatori della raccolta la loro influenza o capacità di pressione nei confronti degli enti responsabili degli affidamenti e delle convenzioni, ottenendo come contropartita somme di denaro da utilizzare per progetti benefici. Se non prevenuti, questi commerci di influenze, oltre che evolvere in reati di traffico di influenze, turbative d’asta, ecc.., rischiano di attrarre irrimediabilmente gli interessi criminali degli operatori che si trovano a valle della filiera. Un “effetto calamita” che sembra essere diretta conseguenza dell’alterazione dei criteri di selezione dei raccoglitori dei rifiuti tessili urbani, i quali vengono prescelti non in base alle garanzie offerte ai rappresentanti della collettività (in termini di efficienza, trasparenza della filiera, ecc.) ma in funzione del loro buon rapporto con gli enti solidali e caritatevoli”.
Come uscire da questo intreccio? “Andrebbe trovata un’alchimia per cambiare la situazione conservando, allo stesso tempo, tutto il buono del passato. Il regime competitivo in cui siamo stati catapultati di sicuro non riusciamo a sostenerlo”, ha commentato lo storico esponente della cooperazione sociale veronese Aldo Barbini e “La Rivincita dell’Usato”.
Nelle sue “Linee Guida sull’affidamento dei servizi di gestione degli abiti usati-rifiuti tessili” Utilitalia, l’associazione di categoria delle aziende di igiene urbana, offre alcune soluzioni che potrebbero essere adattate anche ai regimi EPR. Innanzitutto le stazioni appaltanti anziché limitarsi a valutare il primo anello della filiera, che è la raccolta, dovrebbero verificare la bontà della filiera nel suo complesso. Le Linee Guida chiedono poi di “fare attenzione a che l’argomento solidale non venga utilizzato come requisito selettivo per escludere qualcuno in favore di qualcun altro”.
“È ad esempio da ritenere inopportuna, nell’affidamento dei servizi pubblici, qualsiasi forma di limitazione alla partecipazione fondata sull’identità soggettiva degli operatori economici”, affermano le Linee Guida, “poiché deve essere applicato – in armonia con la giurisprudenza dominante – il principio della massima partecipazione, condizioni particolari che possono legittimare scelte derogatorie devono essere accuratamente valutate, anche nell’individuazione dei criteri premianti”.
Utilitalia sottolinea che “la vocazione solidaristica del servizio può manifestarsi in diversi modi, ad esempio:
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promuovendo l’integrazione sociale e professionale delle persone con disabilità o svantaggiate;
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utilizzando parte dei ricavi per finanziare il sostegno a Progetti socio/assistenziali o di solidarietà e sviluppo nel territorio servito, in Italia o all’estero;
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realizzando un mix di entrambe le precedenti opzioni”.
Con riferimento all’integrazione sociale e professionale, le Linee Guida dicono che “in virtù dell’art. 112 del D.lgs. 50/2016 (oggi riproposto nell’articolo 61 del Dlgs 36/2023, ndr) le stazioni appaltanti possono eventualmente riservare il diritto di partecipazione a chi impiega soggetti svantaggiati o con disabilità. Poiché comporta la scelta di procedere a un affidamento riservato, è importante che la stazione appaltante utilizzi tale facoltà nel rispetto dell’art. 30 del D.lgs. 50/2016 (oggi sostituito dai principi prioritari di risultato, fiducia e accesso al mercato degli articoli 1, 2 e 3 del Dlgs 36/2023, ndr) che invita a utilizzare tale opzione garantendo di non ledere gli interessi dei partecipanti né limitare la concorrenza allo scopo di favorire o svantaggiare indebitamente taluni operatori economici. In ogni caso, proprio per evitare conflittualità con i principi di non esclusione e massima partecipazione di cui all’art. 30, sarebbe opportuno che eventuali richieste su soggetti svantaggiati o con disabilità riguardassero l’organico impiegato per i servizi oggetto di appalto e non l’intero organico del soggetto appaltatore, anche in modo da consentire una ricaduta positiva direttamente nel territorio di riferimento del servizio e un impegno dei concorrenti a confrontarsi sul piano di uno sforzo comparabile sia per dimensione del progetto sia per dimensioni e diffusione territoriale dei soggetti partecipanti (…)”.
A proposito dei ricavi utilizzati per sostenere progetti socio/assistenziali e solidali, Utilitalia suggerisce alle stazioni di appaltanti di non accontentarsi di dichiarazioni vaghe ma di esigere rendicontazioni serie e puntuali delle spese sostenute: “nell’assegnazione del punteggio a progetti solidali la stazione appaltante può inoltre valutare il valore economico, l’utilità sociale e i risultati ottenuti da progetti analoghi già realizzati dal proponente, sulla base di indicatori oggettivi utili a stabilire la qualità dei progetti sociali. In questo senso il contributo economico ai progetti è, forse, il parametro più oggettivo. In caso di utilizzo di questo criterio il Bando dovrà esprimere l’unità di misura dell’offerta, in modo che le proposte risultino comparabili”.
In sintesi, le Linee Guida di Utilitalia invitano gli enti responsabili di affidare il servizio di gestione dei rifiuti tessili a non mettere enfasi su “chi” svolge il servizio ambientale, ma sul “come” questo servizio viene svolto e sul “cosa” si ottiene (anche, eventualmente, in ambito solidale). Un punto di vista che è spesso condiviso dagli stessi enti non profit, stufi della concorrenza sleale di chi fa teoricamente lo stesso loro lavoro ma in realtà ottiene l’affidamento dei servizi solo in virtù di legami torbidi con le stazioni appaltanti. Domenico Modafferi, presidente della cooperativa Rom 1995, in un’intervista rilasciata al blog di Leotron dice che “gli enti che affidano i servizi dovrebbero essere molto più rigorosi nei controlli, e quando ad eseguire i servizi sono imprese sociali, i controlli dovrebbero riguardare anche gli aspetti sociali. Non basta affidarsi ad attestati certificazioni: le certificazioni ormai si comprano, è diventato un mercato come un altro, ed è frequente che ad acquistarle siano soggetti che non si comportano sanamente”.
(continua)