#NoNewClothes: verso la giustizia climatica nella moda
Il grande potere dei social media: prima complici nella rapida ascesa della fast fashion, ora arena per combattere il fenomeno che da tendenza è diventato calamità. La fast fashion alimentata dai trendcore e dalla FOMO, la fast fashion che fa male all’ambiente. Se prima i social erano orientati a esaltarla, ora il loro potere viene utilizzato per contrastare il suo dilagare attraverso la nuova challenge #NoNewClothes.
Nata da una collaborazione tra le Nazioni Unite e l’ONG Remake, la campagna #NoNewClothes si prefigge l’obiettivo di reimpostare completamente il rapporto che le persone hanno con la moda. Come? Facendo una pausa di 90 giorni dallo shopping. La sfida è proprio quella di non acquistare abiti nuovi dal 1° giugno fino al 1° settembre 2023. Sono ammessi gli acquisti di usato o il riuso, ma non la fast fashion. La mission dell’ONG Remake è quella di ottenere una retribuzione equa dei salari dei lavoratori nel settore dell’abbigliamento e soprattutto una giustizia climatica che riguardi anche il settore della moda. L’obiettivo della campagna #NoNewClothes 2023 è quello di far scattare qualcosa nella mente dei consumatori, di promuovere un cambiamento nelle loro abitudini di acquisto, di renderli consapevoli.
E questa consapevolezza è possibile solamente quando si iniziano a vedere i risultati. È bello parlare di sostenibilità, tutti si sentono bene nel farlo. Ma il cambiamento arriva quando ciascuno di noi tocca con mano gli effettivi benefici di un’abitudine più sana, di una scelta diversa. Non comprare abiti per 90 giorni aiuta a ridurre l’impronta di carbonio, a limitare i rifiuti che ogni giorno vengono portati in discarica, a far sudare i guadagni a quelle aziende che sottopagano i propri lavoratori e a creare nuove abitudini. Una singola azione rimane solamente un bel gesto, ma un’azione ripetuta nei mesi diventa un’abitudine in grado di cambiare la vita di chi la sta compiendo e di tutto ciò che lo circonda.
Ma se vedere l’impatto positivo è la spinta che serve a partecipare, Remake la fornisce a tutti coloro che vogliono partecipare o che sono semplicemente curiosi. Sul sito ufficiale è possibile verificare i dati della challenge aggiornati: finora oltre 1.500 persone hanno già aderito e con il loro contributo sono stati conservati 15.372.720 litri di acqua, evitati 327.888 kg di emissioni di CO2 e 14.414 kg di rifiuti e risparmiati ben 746.064 dollari. Questi contatori sono destinati a crescere ogni giorno.
L’organizzazione Remake è molto chiara nelle regole. Partecipare alla challenge non significa “niente shopping”, sa che sarebbe un obiettivo irrealistico. Ha infatti stimato che un americano compra in media 16 nuovi capi d’abbigliamento ogni tre mesi. E ancora, possiamo citare i miliardi di dollari (o euro, nel caso europeo) spesi per abiti da cerimonia o da evento acquistati per essere indossati una sola volta e poi gettati via. Remake offre piuttosto un’alternativa: la possibilità di risparmiare nel corso dei tre mesi per poi acquistare qualcosa che si desidera davvero, di sostenere un marchio di moda upcycling, un negozio vintage o di second hand, il sarto locale che può lavorare su un capo che già si possiede o l’acquisto da marchi sostenibili per fare regali agli amici. Il significato più intrinseco è che non è necessario acquistare per forza un abito nuovo per valorizzarsi. È piuttosto più stimolante reinventare un outfit già appeso nell’armadio o cercare in qualche negozio di seconda mano un articolo unico.
A questo punto qualcuno ha obiettato che i propri acquisti contribuiscono a creare posti di lavoro nelle aziende. Remake ha scritto un interessante editoriale che è possibile leggere nella pagina FAQ del sito ufficiale, proprio in risposta a questo genere di “provocazione”. La replica è stata molto semplice e disarmante. I posti di lavoro nel settore fast fashion non sono né equamente retribuiti né sicuri. I lavori ripetitivi vengono svolti dai robot, mentre gli operai vengono pagati molto meno di ciò che meriterebbero. I lavoratori lamentano grandi sacrifici solamente per poter sfamare i figli e mandarli a scuola, dovendo sacrificare il loro benessere poiché ciò che guadagnano non è abbastanza. L’organizzazione ha citato il caso simbolo di una lavoratrice che, per curare il mal di denti, è stata costretta a chiedere un prestito predatorio e poi prostituirsi per ripagarlo. Senza contare che la vita dei lavoratori è a rischio ogni giorno come dimostra l’emblematico crollo del Rana Plaza. E questa è solo la punta dell’iceberg, solo ciò di cui si parla più spesso. Molte storie vengono bypassate dai media, molte non verranno nemmeno mai raccontate.
La sostenibilità è un viaggio personale che può essere intrapreso in qualsiasi momento. E gli input per farlo sono stati e continuano a essere molti: la Settimana Europea per la Riduzione dei Rifiuti, la Giornata Mondiale del Riciclo, l’Overshoot Day, la challenge #NoNewClothes e i nomi possono continuare. Ogni anno vengono promosse dalle organizzazioni nuovi stimoli, sta a ogni singolo individuo coglierli e farne qualcosa di buono.