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La filiera globale degli abiti usati

vista da africani, arabi ed europei

Venerdì 06 Dicembre 2024

Articolo apparso a dicembre su Oltreilgreen24, newsletter di approfondimento realizzata dal Gruppo Safe in collaborazione con il Sole24ore. Si ringrazia il Gruppo Safe per la gentile concessione.

Sull’esportazione di abiti usati nei paesi extraeuropei continuano a fioccare le inchieste giornalistiche e delle associazioni ambientaliste. Ultimi in ordine cronologico il reportage How secondhand clothes took Zimbabwe by storm – and hammered retail della televisione qatariota Al Jazeera, che parla dell’importazione illegale di abiti usati in Zimbabwe, dove vige una moratoria ma gli abiti entrano di contrabbando dai paesi limitrofi, e l’inchiesta The toxic textile crisis di Greenpeace sulla presenza di frazioni improprie negli stock di abiti riutilizzabili importati dal paese africano.

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Quando a parlare del fenomeno sono i paesi del Sud del mondo, sotto i riflettori non c'è solo la questione ambientale. Al Jazeera, riprendendo un tema di cui in Africa si discute da molti anni, denuncia l'impatto di mercato che l'importazione degli abiti usati europei avrebbe sulle manifatture tessili locali: i prezzi troppo bassi rappresenterebbero una competizione sleale verso le produzioni autoctone; la moratoria imposta dal governo dello Zimbabwe per proteggere la propria industria sarebbe inefficace a causa della porosità dei confini e all'assenza di rigorosi controlli doganali. L’emittente qatariota constata che “sebbene i clienti di abiti usati intervistati siano soddisfatti dei prezzi bassi della qualità e della varietà di abiti usati a cui hanno accesso, sarebbero anche felici di acquistare abiti prodotti localmente, a condizione che il costo e la qualità siano adeguati”.

Sam Quashie-Idun, intervistato lo scorso 17 ottobre da Il Manifesto, è il responsabile dell’ufficio “new investigations” di Greenpeace Africa e ha coordinato la recente inchiesta sugli abiti usati in Ghana, che dimostra che gli abiti non riutilizzabili presenti negli stock di usato importati dall’Europa vengono scartati e smaltiti impropriamente provocando gravi danni ambientali. Il focus dell’ambientalista africano non è solo ecologico, ma anche politico e culturale. «La situazione in Ghana riflette una mentalità neocoloniale in base alla quale il nord del mondo trae profitto dalla sovrapproduzione e dagli sprechi, mentre Paesi come il Ghana ne pagano il prezzo”. Ma al momento di avanzare proposte Quashie-Idun, parlando a nome della sua organizzazione, mette al primo posto l’ambiente, individuando soluzioni che mantengano la pratica del riutilizzo di esportazione ma in un contesto più evoluto e controllato. “Greenpeace Africa chiede al governo ghanese di vietare l’importazione degli scarti, limitando l’import ai soli indumenti che possano essere realmente riutilizzati. Chiede inoltre che i marchi di moda siano responsabili del ciclo di vita dei loro prodotti, incluso lo smaltimento dei rifiuti e il loro riciclo. Allo stesso tempo (…) è necessario che la comunità internazionale supporti lo sviluppo di tessile sostenibile nel paese africano”.

Alle istituzioni europee, Greenpeace chiede di “regolamentare il fast fashion, vietando la pubblicità delle aziende che promuovono un modello di business vorace, con notevoli impatti sociali e ambientali”, e di approvare un “sistema di responsabilità estesa del produttore che imponga alle aziende di farsi carico del ciclo di vita dei prodotti, anche quando diventano rifiuti, e inoltre di imporre alle aziende di fornire informazioni trasparenti sulla loro catena di approvvigionamento e di produzione e di mettere in commercio abiti che siano durevoli, riparabili, disegnati per essere riciclabili, prodotti senza sostanze chimiche e ricorrendo a fibre riciclate”.




L’import-export degli abiti usati è stato oggetto di una specifica conferenza tenutasi il 16 settembre a Città del Capo, in occasione del congresso mondiale di ISWA (International Solid Waste Association). A esporre dati e analisi è stato un pool di esperti ed accademici provenienti da Belgio, Gran Bretagna, Olanda, Tanzania, Sudafrica e Italia. A introdurre i lavori è stato il belga Dirk Nelen, esponente del centro studi VITO e consulente della Commissione Europea.

“La quantità di tessili usati raccolti in Europa sta aumentando, ma la percentuale di indumenti riutilizzabili di alta qualità sta diminuendo. Attualmente, circa il 50-75% dei tessuti raccolti viene riutilizzato, mentre il 10-30% viene riciclato”, “Le filiere globali del riutilizzo evitano più impatti ambientali rispetto al riciclaggio compiuto all’interno dei confini dell’Unione Europea”, sottolinea Nelen. “Tuttavia, il vero impatto del riutilizzo non è ancora chiaro, tutto dipende dal tasso di sostituzione: in che misura il riutilizzo sostituisce effettivamente la produzione di abiti nuovi?” “Le esportazioni UE di tessuti usati sono aumentate dalle 0,55 milioni di tonnellate nel 2000 a quasi 1,7 milioni di tonnellate nel 2019. Ma il destino dei tessili usati esportati dall'UE è altamente incerto. La percezione delle donazioni di abiti usati come doni generosi alle persone bisognose non corrisponde pienamente alla realtà. Gli abiti usati fanno sempre più parte di una filiera globale specializzata fondata sul commercio. A causa dell'obbligo di raccogliere i rifiuti tessili in modo differenziato, che coinvolgerà tutti i paesi dell'UE a partire dal 2025, le quantità di tessili usati raccolti potrebbero aumentare ulteriormente. La strategia dell'UE per i tessili sostenibili e circolari offre strumenti concreti per affrontare le sfide derivanti dall'esportazione di abiti usati".




Elize Hattingh, consulente del Department of Trade Industry and Competition del Governo sudafricano, ha chiarito che nel suo paese gran parte delle importazioni di abiti di seconda mano sono proibite. Il divieto è stato imposto con il fine di proteggere il mercato locale e i posti di lavoro dell’industria manifatturiera nazionale, e anche con l’obiettivo di prevenire gli impatti ambientali. Ciononostante, afferma l’esperta, grandi volumi di abiti usati entrano di contrabbando, ed uniti all’importazione di abiti low cost dai paesi asiatici hanno provocato un importante declino dei posti di lavoro del settore tessile formale. Secondo la Hattingh occorre stimolare le manifatture locali, supportare l’impiego di fibre naturali e potenziare le piccole e medie imprese perché si attrezzino a riciclare e recuperare gli scarti tessili. Le materie secondarie tessili potrebbero essere impiegate per far crescere l’economia nazionale, sia con soluzioni fibre-to-fibre che con applicazioni per il settore edile, come ad esempio i materiali isolanti. La Hattingh non si è mostrata chiusa rispetto alla possibilità di importare abiti di seconda mano, affermando che, in un contesto più controllato, l’usato potrebbe creare opportunità di business per le piccole e medie imprese sudafricane.

Secondo David Roman, esponente di una charity britannica che raccoglie 56.000 tonnellate all’anno di abiti usati esportandoli in Ghana e Kenya, i problemi ambientali del riutilizzo di esportazione possono essere risolti compiendo innanzitutto diagnosi più precise del fenomeno, mediante “robuste” ricerche indipendenti e a partire dall’adozione di dati e definizioni più solidi, precisi e meno fraintendibili. Roman propone anche l’istituzione di un “Forum of all value chain”, ossia uno spazio di comunicazione e feedback che coinvolga tutti gli attori della filiera, dai dettaglianti e waste pickers africani fino agli impianti di selezione e ai raccoglitori europei.

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