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G7 e riuso, parlano gli operatori

Giovedì 02 Maggio 2024

Il G7, che si è riunito a Venaria in provincia di Torino e che ha concluso i suoi lavori il primo maggio, ha fatto un’importante dichiarazione congiunta in merito alla circolarità del settore tessile, menzionando anche il Riutilizzo come azione chiave. L’impegno è creare entro la fine del 2024 un'Agenda volontaria comune sui tessili e la moda circolari tra governi, imprese, stakeholder e partner". Lo scopo, dichiara il G7, è "intraprendere passi significativi e concreti per guidare un cambiamento sistemico e trasformativo all'interno l'industria tessile e della moda promuovendo pratiche di economia circolare lungo l'intera catena del valore e favorendo il futuro sostenibile, etico e circolare del settore su scala globale". La Agenda on Circular Textiles and Fashion, secondo le intenzioni del G7, dovrà portare avanti questo programma "integrando le iniziative esistenti in questo settore ed evitando duplicazioni” e “dovrebbe mirare a definire una serie di azioni concrete da attuare su base volontaria (entro un orizzonte temporale a breve e medio termine), che possono includere, tra l'altro, il miglioramento delle progettazione sostenibile dei prodotti tessili e di moda, promozione del riutilizzo e del riciclaggio, regimi di responsabilità estesa del produttore, trasparenza e tracciabilità dell'intera catena del valore e aspetti legati all'informazione dei consumatori, anche sugli acquisti online di prodotti".

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Alessandro Stillo, presidente dI Rete ONU ha commentato: “il riutilizzo è in cima alla gerarchia dei rifiuti, ci sono delle problematicità in alcuni settori della filiera ma tutto può essere risolto intervenendo nei processi produttivi senza tagliare fuori i comparti dei grossisti degli ambulanti, dei waste pickers e delle microimprese in generale”. Che il G7 si pronunci in modo netto sul tessile è importante perché “il corretto smaltimento dei beni usati invenduti “deve essere regolamentato attraverso norme governative che ne garantiscano il corretto smaltimento – ha sottolineato Alessandro Giuliani, portavoce dell'associazione di categoria.




A preoccupare gli operatori della filiera, in questa fase, è soprattutto la volontà di alcuni paesi europei, Francia in primis, di proibire o inibire l’esportazione di abiti usati al di fuori dei confini dell’Unione; attualmente sono proprio le esportazioni extraeuropee a garantire il maggior volume di riutilizzo degli abiti usati. Abbiamo sentito Abbas Abo Khalil, Direttore di S-Afriq, impresa di licensing con sede in Congo Brazzaville che a fronte del rispetto di specifici standard concede il suo marchio di qualità a imprese africane che importano e distribuiscono abiti usati.

Signor Abo Khalil. La Francia ha recentemente proposto di vietare l’esportazione di abiti usati ai paesi africani. Ha qualche commento da fare al rispetto?

Il mio commento è uno solo: basta con le ipocrisie. Nell’Africa subsahariana vive oltre un miliardo di persone a fronte di una produzione di rifiuti urbani di circa 120 milioni di tonnellate annue, che per almeno la metà sono rifiuti organici. L’Europa ha meno della metà degli abitanti e produce una quantità doppia di rifiuti. Per quanto l’Europa negli ultimi decenni sia riuscita a migliorare di molto gli standard ambientali della sua gestione rifiuti, continua ad avere una produzione di rifiuti procapite che è almeno quattro volte maggiore a quella di un africano. L’Europa inquina molto più dell’Africa, non c’è paragone. E’ giusto che l’Africa smetta di essere la pattumiera dell’Europa, ma chiudere le filiere del riutilizzo, che sono il cuore della circolarità, dal punto di vista ecologico non ha alcun senso. La Francia ha una relazione complessa con gli africani, e la sua posizione contro l’export degli abiti usati può essere capita fino in fondo solo se si tiene conto di uno specifico quadro geopolitico. Il rischio è che con questo tipo di iniziative molti africani, semplicemente, non avranno più la possibilità di vestirsi. E in Africa a crollare non sarà solo la reputazione della Francia, ma quella dell’Unione Europea in generale.

Qual è quindi la giusta direzione?

Il riutilizzo è la priorità, non solo da un punto di vista ecologico ma anche per la quantità di ricchezza che produce. Se il mercato che garantisce il riutilizzo, che è quello africano, produce degli scarti, questi vanno gestiti nella maniera più adeguata: l’interesse dei governi europei dovrebbe concentrarsi su questo aspetto. Parallelamente, gli importatori e distributori africani più evoluti possono riformare i loro modelli operativi e di business per fare in modo che gli scarti siano minimizzati. S-Afriq sta già lavorando su questo fronte con la sua rete di imprese, anche grazie alla collaborazione costruttiva con gli impianti di selezione rifiuti tessili europei che aderiscono a Rete Nice. Proibire l’esportazione di abiti usati all’Africa avrebbe tre principali effetti: 1) destinare all’incenerimento o al riciclo chimico la maggioranza degli abiti riutilizzabili; 2) diminuire l’accesso degli africani al bisogno primario del vestirsi; 3) introdurre il pericolosissimo principio che, siccome l’Africa non gode ancora di un ciclo dei rifiuti adeguato, allora occorre escluderla dalle catene di consumo dell’economia globale; di fatti, se lo smaltimento è inadeguato, lo è sia per i beni usati di importazione che per quelli nuovi: entrambi prima o poi arriveranno a fine vita. E, se vogliamo dirla tutta, a volte ad avere la vita più lunga sono proprio i beni usati, perché sono stati selezionati in virtù della loro durevolezza, che è sicuramente molto maggiore di quella del fast fashion.

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