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L’EPR, i Centri di Riuso e la guerra per la crema

Martedì 05 Luglio 2022

Alessandro Giuliani

Lo scorso 24 giugno il Ministero della Transizione Ecologica (MITE) ha approvato con un decreto la Strategia Nazionale per l’Economia Circolare. Nel corposo documento di 159 pagine il riutilizzo e la riparazione, pur essendo pilastro e priorità dell’economia circolare, vengono messi in un unico calderone e affrontati nel paragrafo 4.2: una paginetta e mezza in tutto, compensata poi da un’altra paginetta nel capitolo 8 dove vengono indicate, concretamente, le misure identificate per sostenere queste pratiche virtuose. In questo limitatissimo spazio, la descrizione del settore viene liquidata affermando che in Italia la seconda mano fattura 24 miliardi di euro (assumendo per buoni dati DOXA calcolati con metodologie perlomeno discutibili, data l’ampiezza dei perimetri, la sovrapposizione dell’offline con l’online e altre questioni ancora), e prendendo atto che il settore impiega circa 80.000 addetti (nel Rapporto Nazionale del Riutilizzo in realtà si parla di 80.000 microimprese, per un totale di almeno 100.000 addetti). Questo settore, nonostante le sue dimensioni ragguardevoli è reputato dal Ministero (non si sa in base a quali fonti):

  • “non strutturato”;
  • “obiettivamente insufficiente ad affrontare l’ampiezza della questione”;
  • “non in grado di assorbire gran parte della potenziale offerta”.

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Ciò sarebbe dovuto, tra le altre cose, a una tendenza del settore “a intercettare solo le frazioni più ricche” lasciando da parte tutto il resto; una valutazione che non tiene conto dell’esistenza degli ambulanti e delle botteghe di fascia bassa e neanche dell’esistenza di filiere articolate internazionalmente che possono garantire il massimo recupero; nel caso degli indumenti tali filiere sono già strutturate, nel caso delle altre frazioni le filiere estere funzionano in base a flussi prodotti in altri paesi e non aspettano altro che integrare anche le offerte provenienti dall’Italia.

Lo scarso fondamento delle valutazioni del MITE è dimostrato anche dalla descrizione del settore abbozzata nel paragrafo 4.2, dove viene fatto un gran mescolone: Il MITE afferma, incredibile ma vero, che nel settore del riutilizzo “le realtà esistenti si situano prevalentemente nell’ambito del no profit e riguardano principalmente attività d’intermediazione conto terzi”. In realtà, come indicato ampiamente dalla letteratura tecnica, il settore è composto da almeno 50.000 microimprese ambulanti (che nel caso degli indumenti sono integrate a filiere tracciate e strutturate), da circa 3.000 negozi in conto terzi, perfettamente formalizzati e quasi sempre dotati di software con sistemi di tracciatura avanguardistici, e da migliaia di altri addetti riconducibili alla dimensione profit. Il non profit non si dedica di certo all’intermediazione conto terzi e le sue attività, a volte qualitativamente molto importanti, si concentrano nel settore dei centri di riuso (qualche decina di impiegati in tutto il paese) e, più significativamente, nella raccolta dei rifiuti tessili urbani (almeno il 50% della raccolta italiana, ma comunque facendo capo a filiere gestite dal profit). Come ha rimarcato il Presidente di Rete ONU Alessandro Stillo, “il non profit è pieno di realtà che vanno coltivate e sostenute, rappresenta comunque un singolo segmento facente parte di un universo ampio e virtuoso, che non deve essere sottovalutato in nessuna delle sue parti”.

Stillo ha sottolineato che il settore della seconda mano è “un universo caratterizzato da diversi gradi di strutturazione, che oggi è in grado di reimmettere in circolazione 500.000 tonnellate di beni all’anno e, data l’esperienza del settore degli indumenti usati, anche di organizzare filiere internazionali che consentano di arrivare al massimo potenziale di recupero”.

Per superare la presunta inadeguatezza del settore dell’usato per le nuove sfide di recupero, il Ministero indica una sola strada:

“sviluppare una rete strutturata e diffusa di Centri per il Riuso comunali, definendo anche un modello funzionale, organizzativo e gestionale comune e condiviso”.

Le chiavi per gestire tali Centri di Riuso, sono per il Ministero non la gratuità e il volontarismo (come era stato suggerito in passato da certe realtà di advocacy e anche da una pdl dell’On.Fontana) ma la commercializzazione e la dimensione di filiera:

A fronte di volumi importanti e crescenti di beni dismessi e potenzialmente riutilizzabili, risulta prioritario promuovere un’adeguata rete di strutture pubbliche e private in grado di allungare il ciclo di vita dei prodotti, ridistribuendoli efficacemente nel circolo commerciale” (...).

Lo sviluppo industriale di Filiere del Riutilizzo favorirà il raggiungimento di molti degli obiettivi fondamentali dell’Economia Circolare: non solo la riduzione nella produzione di beni nuovi con nuove materie prime e la riduzione della quantità di rifiuti prodotti, ma anche la creazione di un’economia locale e di prossimità e la creazione di nuovi posti di lavoro.

Tale visione si traduce, concretamente, nell’allocazione di 600 milioni di euro in ambito PNRR al concetto centri di riuso/raccolta differenziata. Soldi che, presumibilmente, verranno captati dai Comuni perché integrino il sistema dei centri di raccolta con i Centri di Riuso.

A commento globale dell’impostazione ministeriale, che parte da una lettura vaga e bizzarra della realtà ma poi è estremamente specifica nell’individuare le soluzioni, è possibile a mio avviso fare solo due ipotesi, che non necessariamente si escludono a vicenda:

Prima ipotesi: il Ministero, concentratosi su altri settori del recupero dei rifiuti, ha affrontato il tema del riuso frettolosamente e superficialmente, fraintendendo totalmente la letteratura tecnica e i dati a sua disposizione, e traendo quindi conclusioni inadeguate con potenziali effetti deformanti;

Seconda ipotesi: il Ministero, di fronte a pressioni lobbistiche di segno opposto, ha scelto di adottare un approccio, per così dire, salomonico, spartendo la “crema” del riutilizzabile tra i Comuni (che gestiscono le raccolte dei rifiuti urbani) e i produttori (ossia le industrie e i distributori del nuovo, che in base ai nuovi regimi di responsabilità estesa del produttore dovranno garantirne il recupero).

Questa seconda ipotesi, che a mio avviso è la più probabile, vorrei spiegarla meglio. Le indicazioni sul riutilizzo poste dalla Strategia Nazionale sull’Economia Circolare, e i loro effetti, vanno osservate in parallelo all’introduzione degli imminenti regimi di responsabilità estesa del produttore (EPR) dei tessili, dei mobili e dei materassi. In questi regimi le industrie, ossia i produttori, avranno il dovere di organizzare e finanziare le filiere del recupero, e ovviamente punteranno sulla crema, che è la frazione maggiormente valorizzabile, ossia quella che garantisce sostenibilità a tutto il sistema. La legge di fatti consente ai produttori, tra le altre cose, di creare raccolte parallele presso i negozi al dettaglio; queste iniziative cercheranno di intercettare la crema mediante sistemi scontistici e altri strumenti. Parallelamente, in vista di scenari dove i Comuni dovranno consegnare ai produttori i rifiuti raccolti, sembra che i Comuni vogliano trattenere per loro stessi la crema, utilizzando i centri di riuso come sistema per sottrarla, a monte, dalle filiere di recupero organizzate dai produttori.




In questo tipo di prospettiva gli operatori dell’usato, ossia i soggetti che veramente e concretamente oggi fanno riutilizzo e sanno come farlo, si trovano tra l’incudine e il martello e rischiano di rimanere spappolati in una lotta tra titani. I Comuni da una parte e i produttori dall’altra. Il Ministero, che ovviamente cerca di mediare, sembra voglia tagliare il bambino vivo in due parti: da un lato i centri di riuso, gestiti dai Comuni, e dall’altro la preparazione per il riutilizzo, gestita dai produttori. Un po’ di crema andrà da una parte e un po’ di crema andrà dall’altra, a favorire i rispettivi business di indotto; in nessuno dei due casi, però, le filiere raggrupperanno sufficiente crema per sostenersi ed essere efficienti. Ma diversamente dal caso delle donne che si erano rivolte a Salomone, purtroppo, né i Comuni né i Produttori amano il riutilizzo come si ama un figlio; al contrario, il riutilizzo neanche lo conoscono, è per loro solo un’idea astratta da discutere a tavolino. Il rischio concreto, quindi, è che il Ministero non venga bloccato e che il bambino venga tagliato a metà e muoia. A piangerlo saranno solo gli operatori dell’usato e i consumatori, che da questa triste mediazione sono stati accuratamente esclusi.

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