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Abiti usati: la terra dei fuochi è migrata nei paesi poveri

Mercoledì 22 Dicembre 2021

Pietro Luppi

Recentemente le cronache internazionali hanno denunciato l'esistenza di un'enorme discarica abusiva di rifiuti tessili nel deserto di Atacama, nel nord del Cile. Quasi quarantamila tonnellate di stracci ed abiti non più riutilizzabili che inquinano uno degli ecosistemi più delicati del pianeta.

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(Foto tratta da www.naiz.eus)

I media hanno sottolineato che si tratta prevalentemente di abiti "fast fashion" a rapida obsolescenza prodotti in Cina, Bangladesh o altri paesi che producono abbigliamento a basso costo, ma non ha dato altrettanta evidenza al meccanismo illecito alla radice del fenomeno, il quale non ha origine nei paesi che producono gli abiti ma in quelli che li consumano. Un meccanismo che ci riguarda molto da vicino. Ricostruiamo la vicenda passo per passo: gli abiti abbandonati ad Atacama provengono dal porto della zona franca di Iquique, nel nord del Cile, che riceve dall'estero quasi sessantamila tonnellate di abiti riutilizzabili. Questi abiti usati, in buona parte, vengono inviati di contrabbando a paesi sudamericani dove la loro importazione è proibita per proteggere il mercato delle industrie tessili locali (ci sono moratorie in Brasile, Argentina, Bolivia, Perú, Colombia, Ecuador e Venezuela). Ma non tutto ciò che arriva a Iquique è valorizzabile, e quindi gli operatori del settore come primissima cosa separano lo scarto e, senza farsi troppi scrupoli, lo buttano via in modo illecito.




Occorre quindi innanzitutto chiedersi: da dove arrivano esattamente questi rifiuti? E perché negli stock importati dal Cile nella categoria degli abiti riutilizzabili ci sono così tanti scarti che non sono recuperabili? La prima domanda ha una facile risposta: è sufficiente una rapida ricerca sull'Observatory of Economic Complexity (OEC), lo strumento online messo a disposizione da Harvard per tracciare i flussi di import-export di tutto il mondo. Nel 2019, ultimo anno disponibile nei registri OEC, il Cile risulta aver importato "used clothing" dagli Stati Uniti, dalla Corea del Sud, dalla Germania, dal Canada e, in quinta posizione, dall'Italia. E perché mai questi paesi, in alcuni casi noti per le loro gloriose performance di economia circolare, mandano al Cile spazzatura dentro i container navali che dovrebbero contenere solo abiti perfettamente riutilizzabili? Anche in questo caso, purtroppo, la risposta è molto semplice. Gli operatori che raccolgono o recuperano rifiuti tessili urbani, normalmente, non vengono pagati da nessuno per questo servizio e coprono i propri costi operativi grazie alla vendita del riutilizzabile. Il rifiuto che non è riutilizzabile sono tenuti a mandarlo a canali di riciclo (che però non consentono di coprire i costi della raccolta) o a impianti di smaltimento (che però sono sempre più costosi). Ma il dilagare del fenomeno del fast fashion, che ha incrementato la quantità dello scarto e diminuito la quantità del valorizzabile, ha rotto i punti di equilibrio economici inducendo molti (troppi!) operatori a barare. E così, sempre più spesso, negli stock che escono dagli impianti per il trattamento di rifiuti tessili e che vengono dichiarati come riutilizzabili o riciclabili, ovvero non più rifiuti, vengono inserite di straforo quantità di rifiuti sempre più grandi. Nel caso italiano il fenomeno non è affatto nuovo ed è, in qualche modo, un'evoluzione della "terra dei fuochi": disastro ambientale che, come dimostrano le inchieste, molto ha a che fare con le mancate selezioni degli abiti usati donati dai cittadini ad enti caritatevoli o conferiti nei contenitori stradali. La "terra dei fuochi" però non è più facilmente praticabile a causa dell'aumento dei controlli. Molto più facile mandare tutto in paesi dove i controlli ambientali sono carenti o inesistenti, e conteggiare tutto quanto come "recupero", contribuendo, ironicamente, a gonfiare il risultato di "economia circolare" di cui l'Italia poi si vanta nei consessi internazionali.



Non solo Cile

Atacama, ovviamente, è solo la punta dell'iceberg. L'Italia, così come altri paesi europei e così come gli Stati Uniti, non invia illecitamente rifiuti solo al Cile. Le destinazioni principali sono i paesi africani, principale meta delle esportazioni di abiti per il mercato della seconda mano, e l'India e il Pakistan, principali importatori di materie secondarie tessili per il riciclo. Il caso africano è assurto alle ribalte della cronaca internazionale la scorsa estate quando un documentario della TV australiana ABC NEWS intitolato "The Dead White Man Clothes" ha dimostrato che ad Accra, capitale del Ghana, tra il 40% e il 50% delle balle di abiti usati importate dagli USA e dai paesi europei sono composte da spazzatura: circa 160 tonnellate giornaliere che gli operatori locali abbandonano in discariche non controllate o buttano direttamente a mare. Il caso di Panipat in India, principale polo riciclatore mondiale dello scarto tessile, è famoso invece soprattutto per il lavoro minorile. Ma ultimamente è stato dimostrato che Panipat produce disastri anche in ambito ecologico: gli operatori dei paesi più ricchi, inclusa l'Italia, fanno ampio ricorso a Panipat includendo nei loro stock "da riciclare" anche fibre miste che in tutta evidenza Panipat non può recuperare essendo dotata solo di macchine per il riciclo di cotone e lana puri; queste fibre miste, che spesso costituiscono parte sostanziosa degli stock, alimentano roghi tossici che hanno reso irrespirabile l'aria della città.

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