Servitizzazione: cambiamento o riproduzione del passato?
Sandra Garay
Le nuove politiche europee sull’economia circolare sono molto chiare: le industrie sono tenute a produrre beni che durino nel tempo e possano essere riutilizzati e riparati, e l’obsolescenza programmata è messa al bando. Le industrie quindi si chiedono, comprensibilmente, come potranno mantenere gli stessi introiti pur partecipando a politiche produttive che diminuiscono la rotazione degli acquisti.
Secondo alcuni think thank internazionali, primi fra tutti le Fondazioni McKinsey ed Ellen McArthur, la risposta a questo dilemma potrebbe derivare dalla cosiddetta “servitizzazione”, spesso indicata anche con la sigla PaaS (“Product as a Service”). La teoria che va per la maggiore, e che sempre più spesso viene citata anche nelle linee d’indirizzo dei governi, è che se una vasta gamma di beni durevoli destinata al consumer smettesse di essere venduta come prodotto e iniziasse a essere offerta come servizio, allora le aziende sarebbero interessate a far durare tali beni il più possibile per risparmiarsi gli oneri di riparazione e sostituzione. In ambito business to business la servitizzazione è uno schema molto diffuso (ad esempio nei settori delle macchine e veicoli industriali) , ma per i prodotti offerti al consumer la sua applicazione è ancora scarsa ed è complicato prevedere in che misura realmente riuscirà a prendere piede. Probabilmente il successo di questa formula varierà significativamente dipendendo dall’ambito di consumo. Nel settore automotive ci sono già rilevanti segnali di questa tendenza: per le nuove generazioni possedere un’automobile è sempre meno un fatto di status e la minore stabilità economica rende più difficile programmare investimenti e rateizzazioni. Secondo l’Osservatorio Connected Car del Politecnico di Milano nel 2020 il mercato della servitizzazione automobilistica ha raggiunto un valore di quasi due miliardi di euro, in risposta a un crollo del mercato complessivo dell’automobile che nello stesso anno ha registrato una perdita pari al 28%. La pandemia sembra non aver fatto altro che accentuare una tendenza già in atto verso modelli car sharing dove oneri e responsabilità dei consumatori si riducono drasticamente. Ma i consumatori avranno la stessa disponibilità al cambiamento in relazione a elettrodomestici, cellulari, mobili e vestiti? Nonostante l’inflazione di previsioni futuristiche è ancora presto per dirlo.
In un articolo pubblicato su economiacircolare.com Alessia Accili, addetta all’innovazione del gruppo Erion (consorzio di produttori di elettrodomestici che si occupa del recupero e fine vita degli apparecchi elettrici ed elettronici post consumo), chiarisce che i prodotti di uso domestico servitizzati sono ancora molto pochi. Tra gli esperimenti di business che meritano attenzione c'e’ quello dell’azienda olandese Bundles, che noleggia lavatrici facendosi pagare per il numero di lavaggi. Che siano macchine, lavatrici o qualsiasi altro bene, è importante notare che a rendere possibili gli scenari di servitizzazione domestica sono innanzitutto la digitalizzazione e connessione dei prodotti nel quadro di ciò che è stato definito l’”internet delle cose”. Le informazioni e le statistiche provenienti dai fruitori del bene diventano fondamentali per pianificare in modo efficiente le attività di assistenza e manutenzione, per elaborare contratti adeguati e ideare le offerte commerciali più efficaci. L’integrazione di sensori nel prodotto può segnalare al produttore, in tempo reale, stato di funzionamento, condizioni operative e funzionalità privilegiate dall’utente. In questo quadro, l’effettivo potenziale di “circolarità” della servitizzazione dipenderà in ampia misura dalle strategie di marketing delle corporation. Non è infatti scontato che il PaaS rivoluzioni mentalità e abitudini di consumo. Le corporation potrebbero infatti dividere i consumatori in segmenti di fascia alta e fascia bassa, offrendo ai più ricchi i prodotti nuovi e all’ultimo grido (in termini tecnologici o di moda) e lasciando ai più poveri quelli di seconda mano. La divisione potrebbe avere caratteristiche territoriali molto marcate: l’ultima generazione di televisori a schermo piatto sarebbe destinata agli abitanti dei paesi più ricchi mentre a quelli dei paesi più poveri verrebbero rifilate le vecchie generazioni. Se le strategie di mercato fossero queste, l’industria non si renderebbe affatto protagonista di un cambiamento ecologista e paradigmatico. Al contrario perpetuerebbe ed esacerberebbe vecchi cliché e schemi di consumo, accentrando nelle proprie mani, e per i propri fini, il controllo di attività di riparazione e distribuzione della seconda mano che esistono gia’ oggi e che sono appassionatamente (ed efficacemente) curate da una vastissima platea di microimprese popolari.