Parlando del lato oscuro della fast fashion
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Parlando del lato oscuro della fast fashion

Martedì 28 Febbraio 2023
Eleonora Truzzi

Lo scorso 10 gennaio “Le Iene” hanno realizzato un’inchiesta intitolata “Il lato oscuro della fast fashion” con l’intento di rivelare il risvolto negativo della moda economica, il prezzo da pagare che nulla ha a che vedere con il costo irrisorio scritto sul cartellino.

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Del business della moda fast fashion se ne è parlato più volte. Dall’approfondimento di come la fast fashion venga raccontata nelle piattaforme digital ai più giovani, i consumatori che si stanno affacciando proprio ora al mercato, ai prezzi stracciati di questi articoli che durano massimo un anno, fino ai dupes, ossia delle copie di bassa qualità di capi d’abbigliamento di brand famosi.

Ma qual è l’altra faccia della medaglia? È quella delle montagne di abiti usati nel deserto di Atacama, nel nord del Cile. È quella delle condizioni disumane in cui vivono i lavoratori di Shein nella città di Guangzhou, in Cina. E ancora, è quella del crollo del Rana Plaza in Bangladesh. Ed è anche quella delle terribili condizioni di vita e di lavoro a Kanpur, in India. L’inchiesta realizzata da Nicola Barraco e Nicola Remisceg si è concentrata proprio sul ciclo di produzione della pelle in questa remota area del mondo




La produzione della pelle è molto particolare, oltre che inquinante, poiché ogni fase della sua lavorazione è dannosa per l’ambiente. È uno dei materiali più utilizzati all’interno del settore della moda e, di conseguenza, anche dalle aziende che producono fast fashion. Kanpur è la capitale del cuoio in India, in cui i lavoratori impiegano ogni giorno la loro manodopera nell’utilizzo di sostanze chimiche senza alcuna sicurezza per la propria salute, sostanze che poi vengono scaricate nei fiumi. Il paese è quindi un grande insieme di concerie che producono cuoio che verrà esportato in Europa e tra le principali nazioni acquirenti c’è ovviamente anche l’Italia.

Lo chiamano “shopping aholic”, letteralmente la dipendenza dallo shopping, la necessaria compulsione di dover acquistare abiti e accessori che molto probabilmente verranno indossati una volta sola, o forse nemmeno quella.




A tentare di porre un rimedio al consumismo e allo spreco sfrenati della nostra epoca sono gli impianti che fanno selezione di rifiuti tessili. La loro missione è quella di re-immettere in circolazione i capi che possono essere ancora indossati. Il problema è che la fast fashion ha impattato notevolmente anche su questo settore. A confermarlo è Luca Cesaro, legale rappresentante della società Herman Textil Recycling srl, a cui abbiamo rivolto qualche domanda per capire il reale impatto della fast fashion.

Cesaro, di cosa si occupa la società Herman Textil Recycling srl?

Ho fondato l’azienda nel 2020 assieme ad altri tre giovani imprenditori, accomunati dal sogno di diventare un punto di riferimento positivo nel settore dei rifiuti tessili e dell’abbigliamento usato. La mia famiglia lavora in questo settore da tre generazioni ma io sentivo il bisogno di autonomia, di portare avanti un progetto diverso. Uno dei miei soci vive in Africa e si occupa di distribuire all’ingrosso le ballette di abiti usati che vengono selezionate e igienizzate nell’impianto di Herman Textil Recycling a Caserta. Grazie a questa presenza nei mercati di sbocco abbiamo un contatto diretto con i clienti finali e possiamo adattare le nostre offerte ai loro gusti. Per noi la qualità è tutto, facciamo il lavoro di selezione con un’attenzione maniacale. La nostra procedura di ciclo di qualità prevede la consultazione degli operatori ambulanti alla fine della filiera e analisi merceologiche continue della merce in spedizione.

Come ha impattato la fast fashion sul suo lavoro?

Ha impattato male. La qualità del materiale è peggiorata moltissimo. Una camicia scadente sopporta due o tre lavatrici, poi diventa inutilizzabile e spesso è anche molto difficile da riciclare, dato che quasi sempre si tratta di fibre miste.

Cosa comporta la qualità della merce impoverita?

L’inevitabile conseguenza è che aumentano le quote da destinare a smaltimento. Se il fast fashion anziché essere conferito nei contenitori della raccolta differenziata fosse gettato nell’indifferenziato, sul piano ambientale sarebbe assolutamente la stessa cosa.

Quindi qual è l’impatto della fast fashion sul riuso in generale?

Gli stessi problemi che abbiamo noi li hanno tutti gli imprenditori che fanno il lavoro di selezione. La diminuzione delle qualità valorizzabili e vendibili ha fatto scendere i ricavi, e l’aumento simultaneo delle quote da smaltire e del costo al chilo dello smaltimento ha provocato una violenta impennata dei costi. Raggiungere il punto di equilibrio economico diventa sempre più difficile. E, ovviamente, entrano in difficoltà anche gli altri operatori della nostra filiera. I selezionatori per approvvigionarsi devono comprare rifiuti tessili a raccoglitori convenzionati con i Comuni e per la vendita si devono rivolgere agli imprenditori del riuso e del riciclo. È un mercato articolato e di livello internazionale, caratterizzato da dinamiche abbastanza complesse. Il fast fashion non è l’unico problema, ci sono anche le fluttuazioni del prezzo mondiale dell’abito usato, che dipendono da una grande quantità di fattori non sempre prevedibili. Per avere maggiore stabilità Herman Textil Recycling, assieme a un altro gruppo di imprese affini, ha creato una rete soggetto, Rete Nice, i cui obiettivi principali sono garantire una filiera trasparente e mantenere prezzi stabili nella relazione tra raccoglitore e selezionatore e tra selezionatore e distributore finale.

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