La difficile strada dell'EPR tessile italiano
Articolo apparso ad agosto su Oltreilgreen24, newsletter di approfondimento realizzata dal Gruppo Safe in collaborazione con il Sole24ore. Si ringrazia il Gruppo Safe per la gentile concessione.
La strada dell’EPR tessile italiano è più lunga e tortuosa del previsto. Anticipando al primo gennaio 2022 l’obbligo europeo di raccogliere in modo differenziato il rifiuto tessile (che per tutti gli Stati membri scatterà il primo gennaio 2025), l’Italia sembrava volersi porre come leader e traino della nuova fase europea del tessile. Una fase dove ambiziosi obiettivi di circolarità dovranno essere raggiunti grazie all’effetto combinato di raccolta differenziata del tessile, ecodesign e responsabilità estesa del produttore. E’ infatti difficile, se non impossibile, che al di fuori di un quadro sistemico che coinvolga i produttori le raccolte differenziate possano essere efficienti e raggiungere importanti obiettivi di recupero. C’era quindi da aspettarsi che, dopo aver obbligato i Comuni a differenziare il tessile, il nostro Ministero dell’Ambiente (che nell’iter, durato circa tre anni, ha cambiato nome tre volte: MATTM, MITE e MASE) procedesse spedito nell’istituzione di uno specifico regime di responsabilità estesa del produttore. Effettivamente, dopo lunghe consultazioni preliminari degli stakeholder, operate sia da questo governo che da quello precedente, a febbraio 2023 il MASE ha presentato ai portatori d’interesse una bozza strutturata dando loro la possibilità di discuterla collegialmente e di presentare osservazioni scritte. A questa prima fase di consultazione, aveva dichiarato il Ministero durante un partecipato incontro online, ne sarebbero seguite altre a stretto giro con l’obiettivo di concludere il più velocemente possibile.
“Sembrava che il MASE avesse tutta l’intenzione di chiudere i lavori velocemente” riporta il referente per Sistema Moda Italia del consorzio di produttori Retex.green Mauro Chezzi. “Anche perché si sapeva già che a inizio estate la Commissione Europea avrebbe formalizzato una proposta sull’EPR tessile. Se l’Italia avesse chiuso prima della proposta della Commissione, avrebbe potuto partire in autonomia e avere maggiore influenza sul percorso europeo. Un ruolo di leadership pienamente giustificabile, dato che l’Italia, con i suoi oltre 400.000 addetti, è il maggiore azionista della filiera tessile/moda europea. Sembrava che la strada scelta dal Ministero fosse proprio questa, ma a maggio l’iter si è improvvisamente fermato. Una possibile bozza finale era stata predisposta ma non è mai stata trasmessa formalmente agli stakeholder. Ora la situazione è ribaltata: è l’Italia a dover aspettare che l’Europa decida”.
Effettivamente la proposta sull’EPR tessile avanzata dalla Commissione Europea al Consiglio e Parlamento Europeo include standard comuni per i regimi che verranno istituiti in ogni paese, e pertanto l’Italia dovrà tenerne conto. Ma tra la pubblicazione della proposta (avvenuta lo scorso 5 luglio) e la sua approvazione definitiva, potrebbe passare un intero anno: prima delle elezioni europee di giugno 2024, infatti, è fisiologico che per alcuni mesi l’apparato amministrativo europeo si astenga da nuove iniziative. L’Olanda, diversamente dall’Italia, e pur avendo iniziato posteriormente i propri iter, è riuscita istituire il proprio regime EPR del tessile il primo luglio (ossia quattro giorni prima della pubblicazione della proposta europea), e questo le consentirà di implementare già da ora, e con criterio più autonomo, le proprie politiche sulla circolarità del tessile.
“Non siamo riusciti a capire perché l’Italia abbia deciso di aspettare” commenta Roberto Tognoli, Amministratore Delegato del consorzio di produttori Recrea. “Il made in Italy costituisce, da solo, il 30% del tessile europeo. Come sistema Paese avremmo avuto tutto il tempo per giocare d’anticipo, assumendoci inoltre una precisa funzione di orientamento. Ora invece dovremo adeguarci ad una proposta europea che, a nostro avviso, presenta evidenti aspetti di criticità. I provvedimenti ipotizzati, seppur comprensibili in termini di principio, non sembrano poggiarsi su attente valutazioni di fattibilità all’interno dello scenario in cui si opera. La proposta Europea richiede interventi molto precisi e sostanziali in riferimento all’ecodesign, le cui applicazioni comporteranno per i produttori inevitabili e significativi investimenti, sia organizzativi, che economico finanziari”. “A tale proposito si auspica che, sia a livello Paese che a livello comunitario, siano messi in atto adeguati interventi in termini di contribuzioni o defiscalizzazioni, a sostegno delle aziende interessate a tale transizione”. “Ci si aspetta inoltre” prosegue Tognoli “che la proposta europea tenga in giusta considerazione la grande differenza esistente, in termini di resistenza funzionale, di desiderabilità e di durabilità emotiva, tra i prodotti di livello medio/alto del made in italy ed i prodotti del fast fashion. Il made in italy si sostanzia in prodotti identitari, di alta qualità e prestigio, di elevata durabilità, caratterizzati da una desiderabilità a lungo termine da parte dei propri consumatori. Il fast fashion, al contrario, lavora volutamente in over produzioni, producendo capi di abbigliamento a basso costo, utilizzando materiali di bassa qualità e limitata durabilità, puntando il proprio business su di una vertiginosa rotazione del consumo. Risulta quindi evidente come il fast fashion contribuisca in modo significativo sulla produzione del rifiuto tessile, ed oltretutto si tratta di un rifiuto con bassi indici di recuperabilità”.
Chezzi di Retex.green rilancia: “nei prossimi mesi l’Italia avrà la possibilità di intervenire nel dibattito europeo facendo valere tutto il suo peso nel settore tessile/moda. Dobbiamo esprimere leadership, far valere la nostra expertise e le nostre posizioni, e allo stesso tempo acquisire tutti gli input di cui abbiamo bisogno per far scattare in Italia un regime EPR compatibile con quello europeo non appena la direttiva europea sarà modificata. Ma perché il sistema Italia faccia sentire la sua voce deve, prima di tutto, avere una posizione chiara e coerente: per questo auspichiamo che la consultazione nazionale degli stakeholder venga riannodata immediatamente, e che proceda a ritmo rapido verso una sintesi”.
Ad aver generato la stagnazione del percorso italiano verso l’EPR tessile potrebbe essere l’esistenza di posizioni antitetiche tra i Comuni (rappresentati da ANCI) e i consorzi di produttori (oggi, oltre ai citati Retex.green e Recrea, che sono rispettivamente degli spin-off di Sistema Moda Italia e Camera della Moda, esistono anche Ecotessili creato da Federdistribuzione e Cobat tessile nato per iniziativa del gruppo Cobat) . “La prima bozza presentata agli stakeholder dal Ministero” spiega Tognoli di Recrea “era molto sbilanciata sulle posizioni dei Comuni e, in merito all’organizzazione della filiera, relegava i produttori ad un ruolo di puri finanziatori delle varie attività. Abbiamo provveduto all’invio, nei termini, delle nostre note di commento al Ministero competente. Da interlocuzioni con la Direzione generale dello stesso Ministero competente ci è stato suggerito di trovare un punto di accordo, e di formulare proposte condivise, con ANCI. Abbiamo organizzato con ANCI un paio di incontri dai quali è emerso che difficilmente, nel breve termine, riusciremo a trovare un punto di equilibrio che soddisfi entrambe le parti” “I produttori e i distributori, collegialmente, hanno proposto al Ministero e ai Comuni di stipulare un accordo di programma per l’istituzione di raccolte gestite dai produttori presso i punti retail, così come consentito dalla legge”, riporta Chezzi di Retex.green. “E’ un’operazione giusta e necessaria, ma non è affatto scontata da realizzare. Potremmo sfruttare produttivamente i mesi che abbiamo a disposizione prima che il regime EPR venga istituito per fare delle sperimentazioni con le aziende più volenterose. Le logistiche e le modalità di prelievo vanno ben calibrate, e dobbiamo anche trovare le giuste formule di comunicazione: tra i punti di vendita dell’abbigliamento e i loro clienti esiste un legame emozionale molto particolare, e il concetto di rifiuto non è facile da integrare, in un medesimo spazio, con le proposte di valore del prodotto nuovo”.