Busan, crocevia della transizione ecologica giusta
Pietro Luppi
Il mondo è uno, su questo non c’è dubbio. E anche l’ecosistema è uno solo. Ma a Busan, a decidere della sua salute, c’erano 175 governi. La grande città balneare della Corea del Sud, famosa per i suoi grattacieli, dal 24 novembre al primo dicembre ha ospitato il quinto incontro del Comitato Negoziale Intergovernativo convocato dall’ONU con il fine di predisporre un Trattato Internazionale contro l’inquinamento della plastica. A Busan c’ero anch’io, inviato da Rete ONU, l’associazione italiana degli operatori dell’usato, per difendere gli interessi degli operatori del riutilizzo più vulnerabili, ossia quelli che rischiano di essere espulsi o marginalizzati in seguito alla grande transizione ecologica che ormai si pianifica a livello globale. Rete ONU rappresentava l’Europa nella delegazione dell’Alleanza Internazionale dei Waste Pickers, che a Busan includeva anche esponenti latinoamericani, asiatici, africani e nordamericani. Una compagine variegata ma unita dalla volontà di promuovere una transizione giusta ed includente. Prima di Busan, Rete ONU ha partecipato all’incontro di Nairobi, a novembre 2023, e a quello di Ottawa lo scorso aprile, mostrando con fatti e numeri, agli occhi sorpresi di molti governi, che in Italia, così come in altri paesi europei, a compiere la gran maggioranza del lavoro di Riutilizzo è una silenziosa popolazione di microimprenditori, completamente ignorata dalla politica pubblica e spesso costretta all’informalità.
Senza pace l’ecosistema non si salva
In Corea i governi avrebbero dovuto prendere le decisioni finali e arrivare a un testo consolidato del Trattato. Ma questo non è stato possibile. Ciononostante, tutte le delegazioni governative, nessuna esclusa, hanno riconosciuto l’importanza di giungere a un Trattato legalmente vincolante, per contrastare un inquinamento ormai esponenziale e totalmente fuori controllo. I prodotti della plastica stanno invadendo il mondo. Nel 1950 se ne producevano solo due milioni di tonnellate, nel 2024 ne sono state prodotte 500 milioni, e se l’andazzo non cambia si prevede un ulteriore raddoppio entro il 2050.
L’ultima settimana di novembre, chiusi dalla mattina alla sera dentro al centro congressi Bexco, i delegati governativi e gli osservatori, oltre 2000 persone, hanno discusso e litigato su come salvare il mondo. Un po’ di litigio può essere costruttivo, ma purtroppo a Busan a predominare era la sfiducia. Quando Alessandro Giuliani mi ha chiamato in videoconferenza, il 29 novembre, perché aggiornassi gli operatori dell’usato italiani sull’andamento delle cose, il destino dell’incontro era già segnato (vedi il video). Impossibile mettersi d’accordo su una profonda riforma del sistema economico globale, con obiettivi importanti come la riduzione della produzione della plastica, in una congiuntura dove il mondo è diviso in blocchi, dove è in corso un conflitto commerciale senza esclusione di colpi e dove la terza guerra mondiale è alle porte. I paesi occidentali, con la Francia in testa, chiedevano reiteratamente ai paesi emergenti che producono petrolio e plastica di porre dei limiti alla loro produzione, ma negandosi di discutere seriamente sugli impatti di questa politica sulle loro economie e sulle politiche di investimento necessarie per rendere fattibile questo scenario. Tant’è che i paesi emergenti, in blocco, hanno accusato gli occidentali di utilizzare il discorso ecologico in maniera demagogica e per meri fini geoeconomici. Partecipando alle riunioni a porte aperte e chiacchierando con i delegati governativi di vari paesi, ho potuto rendermi conto della grande complessità della negoziazione.
“Ognuno vuole spostare sull’altro l’onere economico della soluzione del problema”, mi ha detto un delegato governativo occidentale, esasperato, dopo un interminabile riunione sul tema del finanziamento. I paesi produttori di plastica restituiscono al mittente le richieste di riduzione della produzione e chiedono di focalizzarsi piuttosto sulla gestione dei rifiuti e sulla riparazione del danno, facendo pagare il costo dell’operazione ai principali paesi consumatori (che sono soprattutto occidentali); quelli occidentali ribattono chiedendo che a pagare siano i paesi produttori, in base ai principi della responsabilità estesa del produttore. La Cina, che in questo negoziato ha mostrato la maggiore saggezza, ha chiesto di creare un meccanismo di cooperazione globale dove il ciclo della plastica sia considerato come un tutt’uno, dalla progettazione e produzione fino al consumo e alla gestione del rifiuto; un meccanismo che, ovviamente, è possibile solo con la pace.
Tutti d’accordo sull’Economia Circolare
Per i governi mettersi d’accordo sulla riduzione della plastica sarà estremamente difficile, ma sull’Economia Circolare sembra invece esistere un consenso generalizzato. Ecodesign, Riutilizzo, Riciclo, divieto globalizzato di smaltire i rifiuti in discariche a cielo aperto, meccanismi di controllo e tracciabilità sulle filiere internazionali del rifiuto, e standard alti anche per i paesi dove oggi la gestione dei rifiuti è poco strutturata. Resta aperto il nodo su chi finanzierà la transizione, ma con ogni probabilità un sistema si troverà, perché di fronte all’emergenza ambientale l’Economia Circolare è il minimo obiettivo possibile, e nessun governo del mondo, proprio nessuno, ha voglia di essere incolpato dall’opinione pubblica mondiale di aver impedito l’azione globale per contrastare l’inquinamento della plastica.
A Busan non è stato possibile trovare accordo su un testo finale, ma l’ultima assemblea plenaria dell’incontro, tenutasi il primo dicembre, ha deliberato l’estensione dei lavori a un prossimo incontro la prossima estate a Ginevra (sede amministrativa dell’ONU, ubicata in un paese neutrale); l’incontro di Ginevra potrebbe segnare una svolta nella storia mondiale dell’Economia Circolare.
Quale destino per la microimpresa dell’usato?
Le trasformazioni di mercato e le grandi riforme economiche spesso generano disarticolazione e disruption, e a soffrirne sono soprattutto i soggetti più deboli. A Busan il compito della delegazione internazionale dei waste pickers era prevenire questo scenario esigendo ai governi di tener conto dell’enorme popolazione di raccoglitori informali di rifiuti e microvenditori di beni usati, che seppur invisibili hanno un importantissimo ruolo nel sistema. Oltre agli informali e ai soggetti più vulnerabili, andrebbero protetti anche i microimprenditori formali che gestiscono, spesso con conduzione familiare, i negozi dell’usato.
Preso atto dell’esistenza di blocchi contrapposti di governi, la scelta dei waste pickers è stata quella di parlare assolutamente con tutti, rendendo la propria istanza trasversale. Una per una, giorno dopo giorno, sono state incontrate le delegazioni governative di Canada, Federazione Russa, Brasile, Italia, Regno Unito, Arabia Saudita, India, Pakistan, Norvegia, Colombia, Stati Uniti, Uruguay, Sudafrica, Nepal, Bangladesh, Bhutan, Filippine, Honduras, Panama, Turchia e Kenya. Questo approccio è risultato vincente perché quasi tutti i governi, e tutti i governi influenti, hanno accettato il concetto di transizione giusta e hanno accettato di menzionare in vari passaggi della bozza del Trattato la necessità di includere i waste pickers nei nuovi scenari. L’Alleanza Internazionale dei Waste Pickers sarà presente anche nell’incontro di Ginevra, con l’obiettivo di consolidare il riconoscimento raggiunto e far sì che le semplici menzioni si trasformino in provvedimenti legalmente vincolanti, e che il generico principio di inclusione si concretizzi in specifici meccanismi di supporto. Se ciò succederà, Rete ONU potrà utilizzare il diritto internazionale per chiedere al governo e alle altre istituzioni italiane chiedendo seri e concreti percorsi di sostegno e coinvolgimento dei piccoli operatori dell’usato.
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