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Riutilizzo Informale. Parla l’Università St Andrews

Venerdì 28 Febbraio 2025

In Italia esiste un grandissimo arcipelago di operatori del riutilizzo ambulanti che lavorano soprattutto informalmente, rivendendo nei mercati delle pulci e nelle strade merci usate che sono state ottenute mediante lo sgombero di locali, il rovistaggio dei cassonetti e l’intercettazione presso i centri comunali, oppure ricevendo donazioni da parroci e singoli privati. Decine di migliaia di operatori distribuiti in tutte le Regioni italiane, circa 60.000 secondo le stime di Rete ONU, che lavorano con l’obiettivo di sbarcare il lunario: al 100% con attività di riuso oppure integrando i ricavi delle vendite dell’usato a salari insufficienti. Il Dipartimento di Antropologia Sociale dell’Università St Andrews, la più antica e prestigiosa università scozzese, ha deciso di analizzare il fenomeno del riutilizzo informale in Italia realizzando una specifica ricerca. Al responsabile della ricerca, il Dr Patrick O’hare, è stato affiancato il Dr Matteo Saltalippi. È stato Saltalippi a compiere le rilevazioni di campo, fare le interviste agli operatori ed elaborare i dati risultanti.

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Dott. Saltalippi, quali risultati ha prodotto la vostra ricerca?

I risultati sono stati sia di tipo qualitativo, perché siamo riusciti a ricostruire un profilo generale degli operatori vulnerabili del riutilizzo in Italia, e a comprendere le loro modalità di lavoro, che di tipo quantitativo, perché ora sappiamo che ogni singolo operatore, in media, reimmette in circolazione più di tre tonnellate di merci all’anno. In collaborazione con Rete ONU stiamo terminando di stimare quanti operatori compongano questo universo, ma sappiamo già che i volumi complessivi potrebbero essere molto alti, di sicuro superiori alle 150.000 tonnellate annue.

Come siete arrivati a questi dati? Quantificare i risultati di un’attività informale non deve essere facile: non ci sono registri, non c’è tracciatura di nulla…

Per costruire le nostre stime abbiamo utilizzato una metodologia sviluppata una ventina d’anni fa dall’Osservatorio del Riutilizzo (a quel tempo denominato Occhio del Riciclone, ndr), che finora era stata applicata, in modo puntuale e completo, solo sulla città di Roma nel 2008. Si tratta di una metodologia quali-quantitativa, dove a partire da un questionario flessibile di domande sull’attività economica dell’operatore, vengono ricostruiti uno per uno gli elementi microeconomici e di distribuzione del prezzo; a lato di questo, le merci vengono pesate per arrivare a una media di prezzo al kg, e poi, nuovamente a ritroso, si utilizza il dato economico per stimare il tonnellaggio annuo del riutilizzo. A corroborare la validità di questo approccio è il fatto che, a sedici anni di distanza dalla ricerca compiuta su Roma dall’Osservatorio del Riutilizzo, abbiamo ripetuto lo stesso tipo di analisi su Torino, Roma e Palermo arrivando a risultati sorprendentemente simili.




Come mai Saint Andrews ha deciso di studiare il fenomeno in Italia?

Inizialmente pensavamo di approfondire il fenomeno dei cosiddetti waste pickers, ossia i raccoglitori informali dei rifiuti, solamente in America Latina. Poi, in accordo con l’Alleanza Internazionale dei Waste Pickers, partner del progetto, abbiamo deciso di concentrarci anche su un fenomeno meno studiato: quello dei i waste pickers in Europa, che si dedicano soprattutto al riutilizzo dei beni durevoli. Ci è quindi sembrato rilevante integrare nella ricerca anche questo contesto, portatore di caratteristiche proprie, che sono più rappresentative del contesto europeo e nordamericano che del continente latino-americano, africano e asiatico. A lato dei casi studio di Ecuador e Colombia abbiamo quindi deciso di affiancare il caso studio italiano.

Perché proprio l’Italia?

L’associazione di riferimento dei waste pickers italiani, che si chiama Rete ONU, aveva bisogno di quantificare il fenomeno per chiedere alle istituzioni un coinvolgimento nelle politiche ambientali; e quindi abbiamo deciso di supportarli compiendo una ricerca indipendente. Ne è emerso un quadro di vulnerabilità che meriterebbe ulteriori approfondimenti. I focus da approfondire sono tre: quello ambientale, quello sanitario e quello del lavoro. L’attività dei waste pickers è fondamentale per l’ambiente, perché distrae dallo smaltimento enormi quantità di materiali, però mettere le mani in mezzo all’immondizia per pescare gli oggetti da salvare può portare a gravi conseguenze sulla salute. È un’attività che va valorizzata e riorganizzata, con l’obiettivo primario di creare condizioni di lavoro più degne.




È stato semplice fare le interviste?

Non è stato semplice. Intervistare soggetti di ogni tipo è il mio mestiere, perché sono un antropologo, sono abituato a creare empatia con gli interlocutori. Ma in questo caso il contesto era particolarmente sfidante: in spazi limitati, e in un tempo limitato, mi sono trovato a interloquire con profili incredibilmente eterogenei, persone con storie diverse, etnie e nazionalità diverse, modi di lavorare diversi. Una pluralità arricchente a livello umano che però comportava degli ostacoli nello stabilire una relazione con gli interlocutori, trattandosi di soggetti istintivamente diffidenti. Senza l’intervento delle associazioni locali aderenti a Rete ONU certe interviste non sarei proprio riuscite a farle. A volte la barriera era di tipo linguistico e Rete ONU mi ha fornito gli interpreti.

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