Pietro Luppi
Sul fronte della riparazione nel primo decennio di questo millennio è scoppiata la moda delle ciclofficine che, ospitate da centri sociali o in spazi comunali, mettono gratuitamente a disposizione strumenti e aiuto concreto a chiunque voglia cimentarsi in prima persona nella riparazione della propria bicicletta. Le ciclofficine sono un’occasione per stare insieme, conoscere gente, e dedicarsi hobbisticamente al lavoro manuale, che quando si passano intere giornate davanti a un computer è un vero toccasana. Ora vanno invece di moda i repair café, nati in Olanda nel 2009 e che anche in Italia hanno un certo numero di adepti.
Cellule del movimento sono sorte a Merano, Roma, Pavia e Napoli, e a volte le sessioni di riparazione si alternano a dibattiti su temi ecologici e sociali. I repair café si attivano periodicamente grazie all’ospitalità di spazi pubblici, teatri, palestre o ristoranti, e chi vuole può portare i propri oggetti da riparare e trovare una comunità di riparatori disposta ad aiutarlo gratuitamente. Il sito web internazionale del movimento riferisce che in ogni incontro, mediamente, diciotto oggetti vengono sanati.
Vanno invece meno di moda, purtroppo, le microimprese artigiane a conduzione familiare che sono portatrici di competenze di riparazioni di livello professionale e che di questo lavoro sopravvivono. Eurostat riferisce che in Italia queste imprese sono venticinquemila tra riparatori di biciclette, calzolai, sarti e riparatori di apparecchi elettrici ed elettronici. Il settore fattura globalmente 2,3 miliardi di euro, ossia 92.000 euro di fatturato medio per unità (non molto, considerando i costi e le tasse che normalmente deve sostenere una microimpresa). Il numero di oggetti sanati grazie ai professionisti della riparazione non è noto, ma a giudicare dal giro economico è probabile che superi cinquanta milioni di unità ogni anno.
Eurostat riferisce che, dal 2008 al 2018, il numero di microimprese della riparazione è diminuito di ben 6000 unità. Viene quindi da chiedersi perché mai i soldi pubblici di cui dispongono i territori per promuovere la prevenzione dei rifiuti, non vengano usati anche per sostenere (o anche solo pubblicizzare) l’economia reale della riparazione, che è in evidente difficoltà.