Report – Panni Sporchi, qualche considerazione
Alessandro Giuliani
Domenica scorsa ho guardato con interesse l’inchiesta Panni Sporchi di Report, condotta dalla giornalista Lucina Paternesi. Nulla di nuovo, per chi conosce il settore dei rifiuti tessili, ma un’ottima occasione per ricordare e riflettere.
Innanzitutto, la Terra dei Fuochi degli abiti usati continua, sia in Italia che all’estero, e nonostante il continuo impatto mediatico che le inchieste giornalistiche generano attorno al fenomeno. L’opinione pubblica è sempre più scandalizzata, e su questo tema la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha addirittura condannato il governo italiano. Eppure le cose ancora non cambiano. Come mai?

Irresponsabilità sistemica
Gli operatori della raccolta dei rifiuti tessili intervistati da Report, che svuotano i contenitori gialli di città importanti come Milano e Torino, mostrano di non avere contezza di dove va a finire il materiale che raccolgono. Conoscono, essenzialmente, solo l’anello di filiera successivo al loro, ossia gli impianti di selezione autorizzati con codice R3 al trattamento dei rifiuti tessili urbani. L’autorizzazione non è di certo una garanzia assoluta, mi sono detto, ricordando le dichiarazioni del Procuratore Squillace Greco, che pochi anni fa spiegava alla Commissione Ecomafie che i camorristi che infiltrano il settore lavorano con tutte le autorizzazioni in regola, e che sono proprio gli operatori delle filiere autorizzate a compiere i delitti ambientali più eclatanti. I raccoglitori, però, alla giornalista di Report dicono di non poter intervenire sulla modalità di lavoro di questi impianti: tutto quello che possono fare, affermano, è visionare la loro autorizzazione o, nel migliore dei casi, richiedere un certificato whitelist emesso dalla prefettura. Andare oltre quasi quasi non è affar loro, sembrano voler dire.
Di fronte alle immagini dei rifiuti smaltiti illecitamente attorno agli impianti tunisini che ricevono i rifiuti tessili torinesi, l’Assessora all’Ambiente di Torino, Chiara Foglietta, asserisce che il Comune non ha i poteri per intervenire su ciò che accade a valle della filiera, nonostante sia il Comune l’ente che affida il servizio di raccolta, Le Linee Guida sull’affidamento del servizio di raccolta e recupero dei rifiuti tessili, pubblicate da Utilitalia nel 2021, suggeriscono a Comuni e Stazioni Appaltanti di estendere requisiti, disciplinari e controlli non solo ai raccoglitori ma anche agli impianti di selezione: ma questi orientamenti restano ancor oggi, ampiamente, lettera morta. Chi affida il servizio ha la possibilità, diversamente da quanto afferma l’Assessora, di controllare la filiera fino a quando vige lo status di rifiuto, e ben al di là della semplice verifica del pezzo di carta che autorizza gli impianti R3 ad operare. Imporre tali controlli nei contratti con gli affidatari del servizio non è però obbligatorio, e a giudicare dalle montagne di rifiuti abbandonati mostrate da Report non sembra proprio che il Comune di Torino stia monitorando la situazione.
Se già al livello del trattamento del rifiuto c’è nebbia, figuriamoci nelle fasi successive, ossia quando il rifiuto, dopo aver subito il trattamento di legge, smette di essere classificato come tale ed è avviato ai canali della seconda mano e del riciclo. Un anonimo in passamontagna spiega alla giornalista la triste realtà: in molti casi i titolari degli impianti, per risparmiarsi il costo dello smaltimento di ciò che non è recuperabile, ficcano rifiuti negli stock inviati in Africa per il Riutilizzo e in Asia per il Riciclo. Tanto lì, se si riesce a superare la dogana, di controlli ce ne sono ben pochi. Chi lavora nel settore di trucchi per abbindolare le dogane europee ne conosce a bizzeffe. Separare i vestiti dalle scarpe, per esempio, lasciando nelle balle dei vestiti da riutilizzare anche quelli che non sono veramente riusabili, e facendo altrettanto con le balle piene di scarpe. La selezione è stata fatta e gli africani sono abituati a comprare roba di pessima qualità, affermano i selezionatori meno onesti. Nelle dogane di destinazione, invece, più che le dissimulazioni valgono le mazzette: con pochi dollari si riesce a far entrare di tutto.
Un piumino imbottito, tracciato dal gps di Report, va a finire in Mali dove fanno 40 gradi. Verrà riutilizzato?, chiede la giornalista al raccoglitore…Spero di sì, se è in buone condizioni, risponde lui.
Non dubito che Report, nelle prossime puntate dell’inchiesta, mostrerà le immagini dei corsi d’acqua e dei roghi dove finiscono le sempre più ampie quote di invenduto generato dagli ambulanti africani. Invenduto non solo perché è normale che non tutto si venda, ma anche perché nelle balle esportate ci sono abbondanti quote di abiti che oggettivamente non possono essere indossati di nuovo.
I nuovi scenari
Una filiera senza testa, dove manca un responsabile. C’è chi non vede, chi fa finta di non vedere, chi se ne lava le mani a prescindere e chi delinque indisturbato. A lato di questi soggetti ci sono anche bravi operatori, e ne conosco più di uno, che si sforzano quotidianamente per rendere il loro lavoro di raccolta, selezione o distribuzione il più impeccabile possibile. Ma la loro capacità di intervento è limitata, e oltretutto soffrono la concorrenza degli operatori che se ne fregano. Perché, quando il contesto è quello di cui stiamo parlando, chi non rispetta le regole ha un chiaro vantaggio competitivo. Meno costi, meno preoccupazioni, e un rischio di essere sgamati che tutto sommato è abbastanza ridotto. Nella maggioranza dei casi, basicamente, basta fare spallucce e dire: non sono responsabile.
Nel primo trimestre del 2026, hanno promesso gli esponenti del Ministero dell’Ambiente nel Forum di Venezia e a Ecomondo, entrerà in vigore il decreto che, finalmente, stabilirà la Responsabilità Estesa del Produttore del tessile. Un responsabile di filiera quindi ci sarà, e saranno i produttori. Le cose a questo punto cambieranno? Forse sì, ma sempre e quando la loro cabina di regia sia indipendente e dotata di veri poteri organizzativi e di controllo. Lo capiremo presto.
In parallelo, il mondo si sta muovendo. La Commissione Europea comincia a ragionare sul concetto di UPR (Ultimate Producer Responsibility), ossia una Responsabilità Estesa del Produttore che si faccia carico non solo della filiera del rifiuto ma anche di ciò che accade dopo che lo status di rifiuto è stato estinto, e in qualsiasi paese arrivi il bene usato o da riciclare. Per capirci, una responsabilità dei produttori che arrivi fino al più sperduto mercato dell’Africa. La modifica della Direttiva Quadro sui Rifiuti 98/2008, nel frattempo, pone vincoli più severi sull’esportazione fraudolenta di rifiuti tessili nelle balle di abiti usati. UNEP, l’agenzia ONU dell’ambiente, ha sposato la stessa filosofia e sta redigendo linee guida per distinguere il rifiuto tessile dall’abito usato, e la Conferenza delle Parti della Convenzione di Basilea, composta da governi di tutto il mondo, sta studiando un modo per aumentare i controlli sull’import-export di rifiuti tessili e abiti usati. La parte più sana del settore della seconda mano sta già scaldando i motori per il nuovo scenario, e chi finora è stato penalizzato per la sua onestà comincerà ad essere premiato. È solo una questione di tempo, io sono ottimista. Gli imprenditori sani lavorano in tutti i comparti del nostro settore: dal retail nazionale ai canali di distribuzione africani, dalla raccolta dei rifiuti tessili urbani fino agli impianti che li selezionano.
L’onestà come vantaggio competitivo
Subito dopo aver visto l’inchiesta di Report ho pubblicato su linkedin, a caldo, un commento riferito alla filiera dei rifiuti tessili dove dico, più o meno: “nessuno si fa responsabile e tutti ci guadagnano”. En passant, ho sottolineato che i mercatini dell’usato conto terzi sono una filiera di riutilizzo a chilometri zero, perfettamente tracciata e sicura, anche grazie all’uso di software gestionali. Sono stato immediatamente redarguito da uno dei raccoglitori apparsi domenica scorsa su Report. “Per pubblicizzare i suoi negozi potrebbe evitare di parlare male degli altri”, mi ha scritto.
Non era quello il mio intento. La mia era una mera constatazione, condita da un pizzico di legittimo orgoglio per lo schema di business che ho portato avanti per oltre trent’anni. Ho quindi offerto all’operatore in questione, che di certo non difetta in capacità argomentativa, di scrivere un articolo per il blog di Leotron, nel caso abbia informazioni o idee diverse dalle mie. Il dibattito è sempre una ricchezza, se è condotto con onestà intellettuale. Quindi spero che accoglierà la mia proposta.
Dopodiché, stamattina, rimuginando di fronte al caffè, mi sono detto: ma perché mai dovrebbe essere un problema farsi pubblicità mostrando di essere più attrezzati degli altri in termini di trasparenza, legalità e tracciabilità? Non sarebbe una cosa buona spostare il terreno della competizione commerciale anche su questi aspetti, invece che limitarsi a presentare il proprio rapporto qualità/prezzo? Quest’ultimo, non è necessario puntualizzarlo, è l’elemento fondante del mercato: ma in assenza di un quadro normativo che sostenga gli onesti con regole chiare e adeguati controlli, esisterà sempre il rischio che a fare le offerte commerciali più convenienti siano i bari e i disonesti. Eppure, per i clienti o partner degli operatori della seconda mano (o almeno per la maggior parte di essi) rivolgersi a un soggetto affidabile, sicuro, non truffaldino e soprattutto non criminale, è un valore di primaria importanza, e lo è ancor di più quando il mercato è oggettivamente piagato da comportamenti scorretti o delinquenziali. Però, perché il consumatore/partner percepisca appieno questo valore aggiunto e possa apprezzare chi si distingue per la sua onestà, deve essere a conoscenza del contesto. Solo in questo modo, allo stato attuale, gli onesti possono recuperare elementi di vantaggio commerciale di fronte alla concorrenza sleale di chi lavora senza rispettare le regole. Quindi ben venga il parlare “contro” le malefatte del settore, sottolineando la propria diversità. A fini informativi? Certo! A fini commerciali? Anche!
Il cambiamento vero non arriverà in virtù di norme alle quali accodarsi perché sono imposte, ma quando l’etica e il bene comune verranno posti al centro da una massa critica di imprenditori della filiera, una massa critica sufficiente a creare leadership di mercato. Quando l’etica e il bene comune vengono prima del business, il business stesso diventa più solido e duraturo. In troppi settori si è invertita questa scala di valori, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti: precarietà, illegalità, perdita di fiducia.